Il bando per la vendita di Acciaierie d’Italia si è concluso senza nessuna offerta concreta, mentre i cassintegrati aumentano e gli impianti cadono a pezzi. Il ministro Urso ha perso la battaglia per salvare la fabbrica. «In questa città è fallita la politica»
«Ogni mese faccio circa 10 giorni di cassa di integrazione. Perdo circa 400 euro dallo stipendio. Eppure mi sento più fortunato rispetto a tanti altri colleghi che sono in cassa a zero ore». A parlare così è Fabio Cocco, 52 anni. L’uomo vive nel quartiere Tamburi di Taranto, proprio a ridosso dello stabilimento siderurgico e la sua esistenza, perciò, attraversa tutte le contraddizioni della classe operaia della città pugliese, come è noto stretta nel dilemma tra salute e lavoro.
Fabio è entrato nell’ex Ilva nel 2003, è impiegato all’interno dell’Acciaieria 2; durante l’estate scorsa, nel reparto dove lavora, una perdita di gas ne ha provocato l’evacuazione. Alla base dell’incidente, il blocco di uno scambiatore non funzionante, hanno riferito fonti del sindacato. I guasti, l’assenza di manutenzione, i materiali che mancano, gli incidenti, sono una costante nello stabilimento di Taranto.
Sciopero
«Nell’Acciaieria 2, su tre convertitori esistenti, uno solo è attivo - racconta l’operaio - siamo una squadra formata da otto persone, ma lavoriamo solo in turni da tre, facciamo la cassa integrazione a rotazione. In questa città è fallita la politica, vedete i lavoratori del porto, da anni stanno quasi peggio di noi, e a nessuno importa», aggiunge Fabio, che parteciperà il prossimo 16 ottobre allo sciopero dei lavoratori di tutto il gruppo di Acciaierie d’Italia indetto da Cgil, Cisl, Uil, che si preannuncia imponente.
Negli ultimi giorni si sono tenute le assemblee negli stabilimenti di Genova, Novi Ligure, Racconigi, e i consigli di fabbrica allargati ai lavoratori dell’indotto negli impianti di Taranto, e durante le quali i lavoratori sono stati informati delle ragioni della protesta.
Le richieste dei sindacati
Sono quattro i capisaldi della piattaforma sindacale: l’istituzione di un tavolo sulla siderurgia a Palazzo Chigi, «per avere risposte occupazionali e ambientali», la richiesta di un vero negoziato per tutelare la salute dei dipendenti, di un intervento pubblico che sia garante della transizione, «contro una cassa integrazione senza prospettive e non negoziata con i lavoratori».
A sentire i sindacati, «nelle assemblee che si sono già svolte, molto partecipate, è emersa la piena consapevolezza della gravità della situazione, ma anche la dignità e la volontà di riscatto dei lavoratori». Sono i sentimenti di Fabio Cocco, che aggiunge: «Non ho gli occhi bendati e perciò mi rendo conto dell’inquinamento del quartiere in cui vivo, e non mi strapperei i capelli se lo stabilimento chiudesse, ma il governo deve prendersi la responsabilità».
«Anche io mi sento quasi un privilegiato», dice un altro operaio, Fabio Boccuni, che è anche sindacalista della Fiom e autore de La settimana decisiva, Memorie dall’ultima fabbrica, romanzo operaio che immagina un futuro distopico in cui la fabbrica di Taranto chiude da un momento all’altro. Racconta: «Sono un manutentore elettrico e dal 2008 sono addetto al treno nastri 1. È un reparto poco produttivo, quasi fermo da cinque anni. Perciò faccio lunghi periodi di cassa integrazione». E continua: «Nell’ultimo anno ho lavorato soltanto nei mesi di agosto e settembre. Per il resto, c’è la cassa, periodi in cui guadagno circa 1.200 euro al mese, è questo fatto agli occhi degli altri cittadini ci fa sentire quasi dei privilegiati. Ma poi mi chiedo, non è che invece facciamo parte tutti del mondo degli sfruttati? È questo che bisognerebbe capire», conclude.
Fallimenti
Vista da qui, nei suoi nodi irrisolti tra salute e lavoro, a 13 anni dal sequestro degli impianti da parte dei magistrati, stretta tra emergenza ambientale e crisi occupazionale, è impossibile dire come la crisi dell’Ilva si evolverà nei prossimi mesi.
Quello che è certo, è che oggi suonano come una profezia le parole scritte nel decennio scorso da Alessandro Leogrande: «Di sicuro, il bivio davanti al quale Taranto è posta non riguarda la sola città. Se essa è stata a lungo lo specchio del Sud oggi è lo specchio dell’intera Europa, di come in un continente segnato dalla recessione e dalla crisi politica ed economica si possano coniugare salute e lavoro, la salvaguardia del territorio e una vita degna di essere vissuta per tutti. Se ciò non sarà possibile, la sconfitta sarà generale».
E di fronte all’esito della gara per la vendita degli stabilimenti dell’ex Ilva, Rocco Palombella, una vita passata su quegli impianti e oggi segretario generale dei metalmeccanici della Uil, parla di fallimento annunciato. «Abbiamo ricevuto solamente offerte da fondi di investimento che non possono rappresentare un futuro con solide garanzie ambientali, occupazionali e industriali. Questo fallimento è frutto delle incapacità sia del Governo nazionale che della non chiarezza di posizioni degli enti locali».
Chiosa il sindacalista: «Non siamo mai stati così vicino alla chiusura, abbiamo un solo altoforno in marcia che si è fermato più volte per problemi tecnici, la metà dei lavoratori in cassa integrazione, 4.500 in tutti i siti, una produzione minima e una perdita economica di oltre tre milioni al giorno». E poi conclude: «per evitare una catastrofe ambientale, occupazionale e sociale c’è solo una strada, la nazionalizzazione con l’avvio immediato della decarbonizzazione. In questi mesi hanno parlato in tanti, molti a sproposito, ora i lavoratori parleranno e diranno la loro con lo sciopero di giovedì».
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