Sembrava una bambola, aveva gli occhi chiusi – dice l’uomo. L’agente di polizia spiega: attirato dagli squilli provenienti dall’interno del cassonetto, il signore qui presente si è fermato, ha sollevato il coperchio.

Testa, capelli – riprende l’uomo. Mi pareva una testa staccata, la testa di una bambola.

Primavera, il cielo è ancora chiaro nonostante sia pomeriggio inoltrato. È proprio vero, le giornate si sono allungate, sta arrivando l’estate.

A cinque anni mia sorella è una bambina vivace. Corre, salta. Mia madre la rimprovera, mio padre si accoda molle, sotto sotto è orgoglioso della figlia scalmanata, nella sua energia vede una prefigurazione di futuro: non si farà mettere i piedi in testa da nessuno. Certe volte, riferendosi alla primogenita, dice ha preso da me, intendendo la forza dei maschi. I capricci sono prove di carattere (“testarda, determinata”), quando strepitando si butta a terra: vuole il gelato, il pupazzo, non vuole andarsene, vuole restare.

In queste situazioni mio padre la solleva da terra e la porta via con la forza – la forza dei maschi. Per molti anni lui sarà in grado di prenderla in braccio, perché lei, seppur adulta, rimarrà comunque piccola, un metro e sessanta per quarantacinque chili.

Frenetica, vitale, volitiva, prepotente, – gli aggettivi usati per definirla. Ben diversi da quelli dedicati a me: fragile, suggestionabile.

È la sorella fragile che in spiaggia lancia la sfida di chi arriva prima alla boa. Le due sorelle, quel giorno rispettivamente di undici e nove anni, entrano in acqua, nuotano. Solo che la fragile presto si ferma. Alza la testa, vede l’altra che, una bracciata dietro l’altra, supera la boa e prosegue.

Si spaventa, ma in quanto fragile rimane imbambolata. Incapace di muoversi, tantomeno di urlare – avrebbe potuto urlare.

Solo dopo un po’ torna a riva a dare l’allarme – frattanto la forte è un puntino lontanissimo nel mare. Recuperata da due uomini con un barchino a motore, Vanessa viene ricondotta a terra.

A domanda se non avesse sentito fatica, se non le fosse mancato il fiato, lei risponde: non sentivo niente.

In albergo si distende sul letto e cade nel sonno, letteralmente cade, è una specie di coma il suo. Mia sorella si risveglia la mattina seguente.

Gli anni passano, io sono alle medie, Vanessa al primo anno di liceo. A primavera, nei miei ricordi è sempre primavera, succede che una mattina mia sorella non rientri da scuola.

La trova mio padre nella via parallela alla nostra.

Si convince che volesse scappare – con chi? chi frequenti? – la interroga, ignorando la giustificazione: non trovavo la strada.

In quel periodo cambiano gli aggettivi per definirla: ribelle, incosciente, pensa solo a divertirsi. I professori convocano i nostri genitori per comunicare che la ragazza rischia la bocciatura.

Non memorizza, si distrae, fatica a rimanere al banco, ogni scusa è buona. Un professore avanza l’ipotesi di qualche difficoltà: di attenzione, comprensione del testo, forse.

Mio padre dice no, nessuna difficoltà.

Piuttosto – ma questo non lo dice ai professori – sospetta che si droghi: colpa di certe amicizie, cattive compagnie.

La chiude a casa. La costringe a fare le analisi

Ogni mese mio padre consegna il barattolo al laboratorio di analisi, ogni mese riceve la stessa risposta: negativo. Questo è uno dei ricordi più netti che ho di lui. Lui che la mattina presto esce di casa con in mano il barattolo di urina della figlia.

“Dimmi la verità, quanti cazzi hai visto tu dal vivo?”

Le domande di mia sorella. Per strada, su un prato, in spiaggia, camera da letto, bagno, al funerale di nostro padre, al funerale di nostra madre. In una carrellata di luoghi che è la nostra vita – e noi sempre più grandi.

A sentire mio padre lo stato di confusione della figlia – lui parlava di confusione – era conseguenza della nuotata. Diciotto ore di sonno e al risveglio non era più lei. Deve essere stato l’ossigeno, ha preso poco ossigeno, se solo qualcuno l’avesse fermata prima – diceva ai medici che evitavano di replicare, abituati ai genitori che negano le condizioni dei figli.

Se solo qualcuno l’avesse fermata prima non avrebbe infilato la testa nel frizer, né avrebbe ingoiato una lucertola viva. Tantomeno si sarebbe messa a frugare nella spazzatura – ancora a detta di mio padre intenzionato a individuare un prima e un dopo, aggiustandosi le date degli eventi, in genere posticipando – in verità mia sorella aveva ingoiato la lucertola a sette anni, molto prima della nuotata, al pari di altri episodi bizzarri accaduti in precedenza e che solo io sembravo in grado di datare. Ebbene, io che ho osservato mia sorella da vicino, ora con incanto, ora con curiosità, odio, diffidenza, paura – c’è stato anche quello, io che la conosco meglio di chiunque altro, posso dire che non ha avuto un cambiamento improvviso. Lei è nata esuberante.

Lo ripeto ai medici che chiedono se ci fossero stati segnali nell’infanzia, avvisaglie, campanelli dall’allarme da noi sottovalutati.

Certo, mia sorella dice cose imbarazzanti. Non ha freni inibitori, ma da quando la mancanza di freni inibitori è una malattia?

Tornano gli aggettivi: ribelle, incosciente. Istintiva, diretta. Dal mio punto di vista libera. Persone scomode per questa società che tende a emarginare i diversi sotto qualche tipo di etichetta – arringo i medici - il problema è culturale, non individuale, e a riguardo potrei fornire una ricca documentazione, ho studiato io.

Pausa. Sguardo dritto su di loro.

Forse dimentichiamo – rilancio – che un tempo neppure tanto lontano le donne venivano internate da padri e mariti: quelle che si rifiutavano di fare le faccende domestiche, le troppo disinibite, le zitelle, le tristi, le donne che cantavano. “Canta per strada”, una delle motivazioni delle cartelle cliniche ritrovate da una giornalista negli archivi di un ex manicomio – io ho letto, studiato.

Il vizio della spazzatura è spuntato intorno ai trent’anni. Dai trent’anni in poi mia sorella frugava nella spazzatura. A domanda sul perché, lei spiegava che la gente butta cose preziose, vedi il candelabro. Il candelabro d’argento da lei trovato – di ferro, a essere precisi. Se l’era pulito per posizionarlo in bella mostra sulla mensola del salotto. Quando muoio te lo lascio – diceva – c osì ti ricordi di me.

Altro che schizofrenia, piscosi – le diagnosi negli anni. Anoressia – quando aveva smesso di mangiare; disturbo della personalità, disturbo dell’umore, deficit cognitivo, disturbo paranoide .

Mia sorella è solo una persona sensibile, – e qui mi sto nuovamente rivolgendo ai medici – lei ama gli animali. Un cane, un gatto sogna di trovare nell’immondizia. Hai sentito il telegiornale? – dice – il cucciolo nel sacchetto di plastica.

Due settimane fa a Monza un neonato. Un passante rinviene un neonato nel bidone. Appena in tempo, ancora poco e sarebbe morto.

Vanessa parla del bambino, immagina dove sia, se abbia trovato una famiglia. Quanti anni dovrebbe avere ora? – e sono passati tre giorni.

Se l’avessimo trovato noi – si rammarica. Ma noi non viviamo a Monza.

Noi viviamo a Roma. Da tutta la vita abitiamo in questo appartamento, in questo quartiere trasformato negli anni: alcuni negozi sono stati chiusi, l’alimentari per esempio.

Altri aperti, il supermercato – il tempo è passato veloce (per strada, su un prato, in spiaggia, camera da letto, bagno, al funerale di nostro padre, al funerale di nostra madre).

Per Vanessa il supermercato è un luogo familiare dove tutti la conoscono.

Ogni pomeriggio, tra le 16 e le 17, mia sorella va al supermercato a comprare le sue cose – la spesa vera la faccio io. Le nostre giornate sono scandite da azioni che si ripetono uguali, usciamo poco, guardiamo la televisione.

Dunque Vanessa gironzola nei reparti, saluta le cassiere. Prende la bustina di animaletti gommosi, esce.

Da quel momento non la vede più nessuno – questo mi viene riferito.

Perché dopo quaranta minuti che lei è non ancora rientrata, vado al supermercato – intanto la chiamo a ripetizione sul cellulare che squilla a vuoto.

I commessi mi rassicurano: sarà nei dintorni, sai com’è, la testa tra le nuvole – squilla il telefono.

Dovendo calcolare, la nostra vita si è svolta in pochi luoghi, la carrellata di immagini che dicevo, che sono anche i miei ricordi più vividi. Mio padre sulla porta del bagno che prende dalle mani di mia sorella il barattolo di urina. Mia madre che la tira per un braccio, ammonendola di non infilare più la testa nel freezer, con lei che risponde: ho caldo.

Io sulla spiaggia che lancio la sfida della boa.

In un ponte temporale che congiunge ieri a oggi, sovrapponendo la spiaggia alla strada nella carrellata d’immagini che sono i miei ricordi, io affretto il passo, e ho l’impressione di correre.

Se fossi stata altrettanto reattiva quella mattina d’estate.

Più coraggiosa laggiù nel tempo.

Avrei nuotato, nuotato.

Ecco cosa sta succedendo ora, a cinquant’anni di distanza – carrellata di immagini, ponte temporale – io sto andando a riprendere mia sorella.

L’agente di polizia indica l’uomo che l’ha trovata. Sembrava una bambola, aveva gli occhi chiusi – dice lo sconosciuto.

Io avanzo verso il cassonetto.

Mi pareva una testa staccata, la testa di una bambola.

Mi alzo sulla punta dei piedi, mi allungo.

Vieni via – dico.

Mia sorella apre gli occhi, sembra un animaletto, il cucciolo che sognava di trovare nella spazzatura. Adesso che sono arrivata io, lei permette ai poliziotti di aiutarla a uscire.

Commenti delle persone alle mie spalle: che forza la signora, ci vuole forza per scavalcare e buttarsi lì dentro (la forza maschile).

Non è successo niente – dico. Deve essere caduta. E lei, al mio fianco, annuisce.

Ringrazio i poliziotti e l’uomo che l’ha trovata. Sono stati gentilissimi. Per fortuna che aveva il bigliettino – commenta l’agente.

“Mi chiamo Vanessa, in caso di smarrimento chiamare il numero…”

E quel numero è il mio.

E quel biglietto l’ho scritto io, scritto e incollato all’interno della sua giacca.

Andiamo a lavarci – dico sorridendo agli astanti.

E ci allontaniamo, io e mia sorella ci allontaniamo – per strada, su un prato, in spiaggia, camera da letto, bagno, al funerale di nostro padre, al funerale di nostra madre.

Com’è passato veloce il tempo.

Certe mattine andiamo al parco, lei fruga nei cestini dell’immondizia, io dico smettila. Lei non mi ascolta, allora io, seduta sulla panchina, il sole d’inizio primavera, socchiudo gli occhi e la lascio fare.


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