C’è stato un tempo in cui quelli del Manchester City erano «i cugini rumorosi». Li etichettò così Sir Alex Ferguson quando regnava sull’altra sponda cittadina, quella dello United, e cumulava successi in patria e all’estero. Era un modo per dire che la gente “Citizen” si accontentava di poco, ma quel poco lo festeggiava con enfasi smisurata. Rispetto ad allora si è rovesciato il mondo, e non soltanto a Manchester.

La sfida contro l’Inter che stasera allo stadio Atatürk di Istanbul assegna la Champions League potrebbe chiudere il cerchio di quel rovesciamento, certificando in via definitiva la grandezza internazionale del City e consegnando alla gente dello United l’etichetta di “cugini silenti”. È avvenuto tutto nel giro di un quindicennio, un arco di tempo che ha fatto di Manchester il vero epicentro delle trasformazioni avvenute nel calcio globale.

La metropoli che guidò la rivoluzione industriale, quella che per tutto il ventesimo secolo ha mal sopportato la centralità di Londra come centro assoluto del Regno, ha conosciuto una crescita tumultuosa proprio col decollo della globalizzazione. La conseguenza è stata la trasformazione dell’ex metropoli industriale in un polo finanziario e culturale alternativo, fortemente concorrenziale verso la capitale.

Il calcio è stato fin dall’inizio un motore di questa trasformazione, tanto da certificare questo status nel momento più drammatico per la storia recente di Manchester, colpita al cuore proprio perché negli ultimi decenni è riuscita a strappare un posto sulla mappa delle città globali: l’attentato terrorista di matrice islamica che il 22 maggio 2017 provocò 23 morti e 250 feriti alla Manchester Arena, al termine del concerto della rockstar statunitense Ariana Grande. All’indomani dell’attentato venne pubblicato il commovente hashtag #acityunited, che giocando sui nomi dei due principali club della città lanciò un segnale di concordia nel momento più luttuoso dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Una vita rovinata due volte

Manchester era già da tempo la più globale fra le città del calcio mondiale. Anche più di Londra, che ha un numero esagerato di club  e dunque è un obiettivo troppo facile per oligarchi e capitalisti di ventura. Dal 2005 lo United è proprietà dei Glazer, la famiglia statunitense odiatissima dalla tifoseria dei Red Devils. Soltanto due anni dopo è toccato al City finire sotto una proprietà estera, ma mica una qualsiasi: perché a comprare i Citizen fu l’ex primo ministro thailandese, in fuga dal suo paese, Thaksin Shinawatra. Spese 82 milioni di sterline, il sospetto è che fossero soldi pubblici dello stato da cui era appena scappato, nemmeno un anno dopo rivendette per circa 200 milioni di sterline agli attuali proprietari, la famiglia regnante degli Emirati Arabi Uniti, gli Al Nayan.

Oltre a fare del City il perno di un sistema multiproprietario di club sparsi per il mondo – il City Football Group, 12 società fra le quali il Palermo – hanno iniettato una quantità esagerata di denaro per il rafforzamento della squadra. Un flusso talmente smodato da aver richiamato l’attenzione dell’Uefa in prima battuta e successivamente della stessa Premier League, entrambe sollecitate dalle rivelazioni fatte dall’operazione Football Leaks.

In ballo ci sono questioni di fair play finanziario, rispetto alle quali la mano della Premier potrebbe essere ben più pesante che quella dell’Uefa, da cui era giunta una sanzione da 60 milioni di euro. Il clima identitario intorno alle due squadre è andato cambiando. Se l’ondata anti-Glazer ha prodotto sulla sponda United la fondazione del club dissidente United of Manchester, sull’altra sponda montava il medesimo, generalizzato disprezzo della comunità calcistica inglese che già aveva investito il Chelsea di Roman Abramovich: l’avversione verso il club parvenu, che scala le gerarchie non per noblesse d’épée e grazie alle glorie conquistate sul campo nel corso dei decenni, ma per noblesse de robe, acquisita con la forza del denaro nel giro di una manciata di anni.

Un tale ogm calcistico ha finito per essere indigesto anche a una parte della stessa tifoseria Citizen, vittima di un paradossale “malessere da improvviso benessere” efficacemente rappresentato dallo scrittore Colin Shindler. A fine anni Novanta, da tifoso del City, pubblicava un romanzo dal titolo La mia vita rovinata dal Manchester United, dando voce alla frustazione da “cugini rumorosi”.

Erano anni in cui i Citizen arrivavano a sprofondare nella serie C inglese, è comprensibile quale fosse lo scorno di vedere gli altri dominare in patria e in Europa. Ma nel 2012 lo stesso Shindler ha preso tutt’altra posizione, nel libro non tradotto in italiano How Manchester City ruined my life, accompagnato dall’eloquente sottotitolo Winning club, losing faith. Nel contrasto fra l’aumento (smisurato) dei successi sportivi e l’allentamento della fede calcistica c’è tutto il paradossale senso di alienazione che colpisce parte della comunità Citizen. Che si trova scaraventata dentro un vasto gioco geopolitico e non ha ancora capito perché.

Trionfi con asterisco

Non si creda che l’atteggiamento dei tifosi alla Shindler sia così diffuso: tutt’altro. Il sentimento dominante è quello che si troverebbe in ogni tifoseria sparsa per il mondo, ben sintetizzato a suo tempo da Elio e le Storie Tese, quando cantavano che «la gente vuole il gol». Adesso la gente Citizen vuole la Champions con la medesima forza che l’ha portata a volere e difendere i titoli conquistati in patria da quando è in sella la proprietà di Abu Dhabi: 7 campionati, 3 Coppe d’Inghilterra, 4 Coppe di Lega e 3 Charity Shield – la Supercoppa d’Inghilterra.

Manca giusto la Champions, sfumata due anni fa nella finale contro l’altra parvenu, il Chelsea, e adesso di nuovo a un passo. Ma nel momento stesso in cui mira in avanti e vede vicino l’obiettivo più atteso, il Manchester City deve guardarsi indietro per capire quanta parte dei titoli messi in bacheca con l’avvio degli Anni Dieci debba considerarsi al riparo dell’investigazione avviata dalla Premier League, relativa alle violazioni delle regole sulla sostenibilità finanziaria.

C’è in ballo il nobilissimo principio dell’equa competizione, in applicazione del quale si cerca di evitare che una proprietà ricchissima ammazzi la gara spendendo senza limiti nel rafforzamento della squadra e nel pagamento dei salari. Al centro dell’indagine sono soprattutto le sponsorizzazioni gonfiate, che avrebbero consentito di tenere artificialmente alte le entrate e sterilizzato i costi esorbitanti. In tutto si tratta di oltre cento violazioni che dovranno essere giudicate da un panel indipendente.

Il rischio di sanzioni sportive è alto, ma fin dove potrà spingersi rimane cosa imprecisata. I titoli vinti nelle scorse stagioni potrebbero essere revocati, qualcuno si è spinto a parlare di retrocessione. Sarebbe uno spettacolare sbianchettamento nell’albo d’oro del calcio inglese e chissà se anche una eventuale vittoria in Champions di stasera debba essere accompagnata da un asterisco.

Nelle settimane scorse è giunto da Pep Guardiola l’appello a fare presto col giudizio, perché continuare a vivere una situazione in cui vinci ma non sai se ti potrai fregiare delle tue conquiste è logorante il triplo che perdere sul campo. La loro vita rovinata da Football Leaks. E infatti c’è chi reagisce con molta meno flemma di quanto faccia il tecnico dei Citizens. In occasione della prima partita successiva all’annuncio dell’indagine della Premier League, i tifosi esposero uno striscione con disegno di mano e dito medio ben in vista, accompagnata dalla scritta “Investigate this!”. L’ex frontman degli Oasis, noto tifoso Citizen, si è spinto oltre via Twitter scagliandosi contro la lega e parlando di «shower of shit». Una serena finale a tutti.

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