Sono le persone su cui si regge il sistema capitalistico globale: ogni anno, 11 miliardi di tonnellate di merci solcano l’acqua a bordo di 120mila imbarcazioni. «Alla scuola di navigazione nessuno ci ha detto che ci sarebbe stato sporco ovunque, un rumore continuo e assordante. Nessuno ci ha preparato a questo». L’anticipazione del reportage di “Il fattore umano”, martedì 4 febbraio alle 23.05 su Rai 3
«Qui camminate veloce, questo è il posto più pericoloso della nave», ci sentiamo dire in inglese mentre ci muoviamo sulla prua della Astra N, un mercantile battente bandiera delle Filippine. «In fase di ormeggio, ognuna di queste corde è alla tensione massima. Se si spezzasse, potrebbe tranciare in due una persona».
A parlare è Erwin Sermon, 40 anni, primo ufficiale. Quando lo incontriamo l’Astra N è appena attraccata al porto di Ravenna, dopo più di tre settimane di navigazione dal Brasile all’Italia. E quasi sei mesi lontani da casa. «Negli ultimi 20 anni ho passato solo quattro volte il Natale a casa», continua Erwin senza mai smettere di lavorare. «È un lavoro molto stressante. Ma quando penso di smettere, mi viene in mente la mia famiglia e mi dico che non posso farlo. I miei figli sono ancora troppo piccoli, se dovessi smettere che futuro avrebbero?».
Un walkie talkie agganciato alla tuta da lavoro gracchia qualche parola incomprensibile per noi. Erwin è uno dei 21 filippini a bordo, il secondo in ordine di gerarchia dopo il Capitano.

Sistema gerarchico
A bordo di ogni nave vige una gerarchia rigida, quasi militare. Ogni membro dell’equipaggio ha un ruolo preciso e un grado specifico, qualcuno a cui può dare ordini e qualcun altro a cui rispondere. Questa stessa gerarchia rappresenta però anche un’opportunità, dove scalare posizioni è più facile che sulla terraferma.
«Basta essere fedeli a sé stessi», ci racconta Angel sul ponte della nave, mentre aggiusta i capelli e mette un filo di trucco. «A bordo di una nave se non si è sinceri, se non si lascia che le persone sappiano chi sei veramente, può essere un grosso problema per questo tipo di lavoro e per la tua carriera».
Angel ha 26 anni ed ha la qualifica di marinaio semplice. Il suo lavoro è quello di occuparsi della pulizia e della manutenzione del ponte, ripara tutto ciò che serve per mantenere la sicurezza a bordo. È appena al suo secondo imbarco, con una paga di 1000 dollari al mese che manda quasi interamente alla sua famiglia. «A casa contano su di me. Il mio obiettivo è quello di diventare capitano, ci vorranno degli anni, ma ce la farò».
I due mondi
A bordo di una nave mercantile convivono due mondi.
Uno sopra, dove c’è la luce, il vento salato, l’orizzonte aperto. È il regno del ponte, delle manovre, dei container impilati come giganteschi mattoncini. E poi sotto, nascosto alla vista, c’è un altro mondo. È il regno della sala macchine, del metallo e del calore. Qui non c’è orizzonte, solo pareti altissime e un’atmosfera satura di olio e carburante.
Renato Costales, 24 anni, è l’addetto alla sala macchine della nave. Ci fa strada mentre affrontiamo una scala ripida che sembra non finire mai, scendendo per almeno quattro o cinque piani. Fatichiamo a stargli dietro. Ad ogni gradino l’aria si fa più calda, il rumore sempre più assordante. Cerchiamo di fare attenzione a dove mettiamo i piedi, ma gli occhi non possono evitare di posarsi sul motore della nave, venti o forse venticinque metri più giù.
«Quando eravamo alla scuola di navigazione si passava tutto il tempo sui libri. Non mi aspettavo questo tipo di lavoro», racconta Renato. «Nessuno ci ha preparato a questo. Nessuno ci ha detto che ci sarebbe stato sporco ovunque, un rumore continuo e assordante. Ma dopo che sono salito a bordo della mia prima nave, la storia è stata completamente diversa».
Il fischio di una sirena attira la sua attenzione. Renato si allontana di qualche metro e sparisce dietro un labirinto di tubi. La sua giornata lavorativa dovrebbe essere di otto ore al giorno, quattro al mattino e quattro al pomeriggio. In realtà non si ferma mai.
«Mio padre era un marinaio molto abile, ha fatto questo lavoro per 30 anni e credo di aver preso ispirazione da lui», continua Renato dopo essere spuntato fuori un po’ più sporco di olio di qualche minuto fa. «È un lavoro molto duro, ma ho imparato ad accettarlo. Questa è la carriera che ho iniziato e questa sarà la carriera con cui andrò in pensione. Come ha fatto mio padre prima di me».
Marinai da Kherson
Lungo i 12 km della banchina del porto di Ravenna si incontrano imbarcazioni da ogni angolo del globo, ma difficilmente italiane. Ogni anno da qui transitano 3400 navi, più di 25 milioni di tonnellate di merci e 100mila marittimi. Un lavoro che si può scegliere solo per necessità e da cui è difficile sottrarsi.
«Avevo deciso di smettere con questo lavoro, volevo vedere crescere almeno il più piccolo dei miei figli. Ma non è stato possibile», Nykola Shichirba è il capitano della Karewood Pride, una nave ucraina che trasporta coils, grandi rotoli di acciaio laminato utilizzati nell’industria per la produzione di lamiere, tubi, carrozzerie d’auto e molti altri prodotti metallici. Dopo 20 anni sulle navi in giro per il mondo, nel febbraio del 2022 Nykola avrebbe dovuto iniziare un nuovo lavoro da pilota a Kherson, la sua città natale. Ma non ci è riuscito.
«Ho visto iniziare la guerra dalla finestra di casa mia: carrarmati, elicotteri, bombardamenti continui. Abbiamo resistito per due mesi, poi siamo dovuti andare via dal paese». E così Nykola nel giro di poche settimane, senza più niente da poter offrire alla sua famiglia, si ritrova di nuovo a bordo di una nave in mezzo all’oceano. E a distanza di due anni e mezzo non è più tornato a casa.
Anche Ivan, 35 anni, il terzo ufficiale della Karewood Pride, viene da Kherson. Come tutto il resto dell’equipaggio «È una città di marinai, molti di noi hanno studiato all’Accademia della Marina. Ora la situazione in città è pessima e siamo tutti imbarcati, in giro per il mondo», continua Ivan senza nascondere la rassegnazione per la sua condizione.
«Ho un amico nell’esercito ucraino. Mi ripete di continuo: non ci provare, non provare neanche a tornare in Ucraina». Ivan, come molti a bordo di questa nave, sa che tornare in Ucraina vorrebbe dire essere arruolati nell’esercito. «Nessuno di noi ha una formazione militare. Questa guerra è per i soldati. E io non sono un soldato, sono un marinaio».
Le storie di Erwin, Renato, Ivan e di tutti gli altri marittimi che abbiamo incontrato a Ravenna sono, a modo loro, tutte storie di costrizione. Prigionieri del lavoro, del mare, della povertà. O di un destino beffardo che sembra già scritto.
Secondo le stime più recenti dell’Organizzazione Marittima Internazionale, due terzi dell’economia globale viaggia via mare. Ogni anno, 11 miliardi di tonnellate di merci solcano l’acqua a bordo di 120mila navi, con il lavoro di due milioni di persone. Due milioni di lavoratori su cui si regge buona parte del sistema capitalistico mondiale. Due milioni di invisibili.
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