Quali sono i casi dimenticati di ingiustizia e disuguaglianze nel mercato del lavoro? Abbiamo chiesto ai nostri abbonati di scegliere tre inchieste fra le proposte che avevamo ricevuto dai giornalisti freelance nelle scorse settimane. Dopo la votazione, durante una diretta Facebook e sul sito, adesso è il momento di sostenere i progetti. Per raggiungere l’obiettivo abbiamo bisogno di 2.000 euro: si può partecipare con un’offerta libera a partire da cinque euro. Per ogni euro versato, Domani ne aggiungerà un altro fino al raggiungimento dell’obiettivo. Sarà possibile finanziare questi progetti fino a sabato, 31 luglio.

La sanatoria delle ingiustizie

Isabella De Silvestro

Laura Loguercio

Colf, badanti, braccianti. Immigrati senza documenti, arrivati in Italia in cerca di una vita migliore ma finiti stretti tra le maglie di una burocrazia sempre troppo lenta, inadeguata, sorda e malfatta. La condizione di clandestinità in cui versano centinaia di migliaia di persone nel nostro paese le condanna a una vita sotto ricatto.

In Italia i documenti in regola diventano infatti abilitatori di diritti: chi non li possiede viene sottopagato e sfruttato da un mercato del lavoro che utilizza la manodopera clandestina per abbattere i propri costi, sulla pelle di chi non ha nulla in mano e cerca di afferrare qualcosa in ogni modo.

La sanatoria per lavoratori senza documenti promossa dal governo giallorosso a maggio 2020, nel pieno della pandemia, prometteva di regolarizzare fino a 200mila lavoratori tra badanti, colf e braccianti agricoli. L’obiettivo era chiaro: abbattere un sistema che, oltre a danneggiare l’economia dello stato per l’elevata evasione fiscale che causa, condanna gli immigrati a condizioni a cui nessuno dovrebbe essere sottoposto.

Oggi, a più di un anno di distanza, solo il cinque per cento dei richiedenti è riuscito a concludere le pratiche e ottenere la regolarizzazione. Gli altri attendono, in silenzio, che la macchina burocratica muova i primi passi e la prefettura fissi un appuntamento per valutare il loro caso.

Secondo i calcoli del progetto “Ero straniero” a Milano, una delle città con il maggior numero di richieste presentate, di questo passo il processo sarà portato a termine nel 2050. Ma già ora la condizione di molti richiedenti è diventata, se possibile, peggiore di quanto non fosse in partenza.

I lavoratori che sperano di essere regolarizzati devono affidarsi a un datore che faccia da garante, perdendo così il poco potere di negoziazione e di mobilità che prima detenevano. Troppo spesso per rientrare nei costi della regolarizzazione – che sulla carta dovrebbero essere a carico dei datori – salari già minimi vengono ridotti ulteriormente, rendendo impossibile per i lavoratori condurre una vita dignitosa.

Questa inchiesta è un mezzo per denunciare le storture, le ingiustizie e le inadempienze di una sanatoria che si sta rivelando fallimentare, ripercuotendosi ancora una volta sulle condizioni già misere di chi nel nostro paese è costretto a elemosinare diritti basilari. L’inchiesta è anche uno strumento perché il tema torni a farsi urgente nel dibattito pubblico e politico: solo così sarà possibile riabilitare una sanatoria partita nel peggiore dei modi.

Garanzia di sfruttamento per i giovani

CHARLOTTE MATTEINI

Ogni giorno, su miriadi di piattaforme online per la ricerca di lavoro, vengono pubblicati decine e decine di annunci che propongono offerte di tirocinio e stage dedicate ai giovani. Camuffate da vere e proprie opportunità, presentate come vere e proprie occasioni, queste offerte in realtà sono di fatto esche che vengono utilizzate da una pluralità di realtà aziendali per procurarsi manodopera da sfruttare a costo quasi zero, scaricando addirittura parte del costo del risicato rimborso spese a cui questi tirocinanti hanno diritto sulle spalle delle istituzioni pubbliche.

“Garanzia di sfruttamento per i giovani” è il titolo dell’inchiesta che ho proposto a Domani e che mira a far luce sullo scorretto utilizzo di “Garanzia giovani”, lo strumento europeo introdotto nel 2014 per aiutare i giovani “neet” tra i 15 e i 29 anni a inserirsi nel mondo del lavoro, e sulla mancanza di controlli da parte delle istituzioni rispetto alle violazioni da parte delle aziende aderenti al programma. Da strumento pensato per contrastare la disoccupazione giovanile, infatti, nel giro di pochi mesi “Garanzia giovani” è di fatto diventato l’espediente utilizzato dalle aziende per assumere manodopera a bassissimo costo, con tirocini mascherati che tralasciano completamente l’aspetto della formazione e non danno luogo a concrete opportunità lavorative al termine del percorso.

Perché sarebbe importante finanziare la mia inchiesta su “Garanzia giovani”?

Perché in un paese in cui l’ascensore sociale è ormai immobile da troppi anni e in cui, nonostante l’assenza di opportunità dignitose per le generazioni più giovani, si continua a puntare il dito contro i giovani bollandoli come “fannulloni”, “choosy” o “lazzaroni”, sarebbe opportuno e necessario fare luce su come le rare e scarse risorse pubbliche dedicate al contrasto della disoccupazione degli under 30 vengono impiegate nella realtà.

I beni culturali generano lavoro povero

Benedetta Aledda

Laura Pasotti

Ci sono luoghi di lavoro in cui persone che svolgono le stesse mansioni hanno contratti diversi e diverse remunerazioni. Accade anche in molti musei pubblici, dove la gestione dei servizi considerati “aggiuntivi”, ma in realtà essenziali per tenerli aperti e funzionanti, è affidata in appalto a società private, spesso cooperative in cui il settore culturale è solo uno tra i tanti in cui operano.

Di chi stiamo parlando? Di chi accoglie i visitatori, di chi stacca i biglietti, di chi controlla che le opere non vengano danneggiate e di chi fa la guida alle mostre o tiene laboratori per le scuole. Delle persone che assicurano la fruizione da parte dei visitatori del museo e delle opere esposte.

Nei cambi d’appalto può accadere che il nuovo gestore applichi un contratto diverso da quello usato nell’appalto precedente, creando così una disuguaglianza fra lavoratori che fanno lo stesso lavoro ma hanno paghe diverse, spesso molto basse.

A voi è mai successo? Può esistere un sistema di appalti in grado di prevenire questa distorsione?

Le gare di appalto dovrebbero essere più chiare riguardo ai contratti da applicare? E se gli enti pubblici decidessero di internalizzare i servizi oggi in appalto?

Vi siete mai chiesti quanto di ciò che viene incassato attraverso i biglietti di un museo va all’ente pubblico per la tutela e la manutenzione di quel museo e quanto invece si perda nella catena degli appalti?

Com’è possibile che i beni culturali generino lavoro povero?

L’esternalizzazione dei servizi museali pubblici è iniziata con la legge Ronchey del 1993 che ha aperto le porte ai privati. Un’apertura che, negli anni, ha prodotto una perdita di salario per i lavoratori delle ditte esterne, una frammentazione dell’organizzazione del lavoro e il mancato riconoscimento di professionalità che si sono formate all’università, come gli educatori museali.

Nella nostra inchiesta vorremmo provare a rispondere a queste domande e mettere in evidenza i meccanismi che creano lavoro povero nel settore culturale.

 

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