Il giornalista Michael Pollan è stato capace di trovare una definizione senza pari per raccontare la vita del consumatore medio contemporaneo: noi siamo, come gli uomini e le donne primitive furono, nel dubbio davanti al cibo.

Lui lo chiama Dilemma dell’onnivoro e dilemma dell’onnivoro è. Come i primitivi erano obbligati per selezione naturale a ragionare su cosa ingerire, ponendosi un dilemma, così noi dobbiamo districarci tra le etichette di cibi che non sono più veri cibi alla ricerca dell’inganno.

Quello della demonizzazione dei grassi è probabilmente il più grosso degli inganni: una concussione tra poteri oscuri e marketing iniziata nel Dopoguerra che ha visto una crescita inarrestabile dagli anni Ottanta ad oggi.

Il collegamento è logico, i grassi portano a essere persone grasse. Da una parte la demonizzazione, quindi, e dall’altra nuovi modi di alterare i cibi confezionati con additivi e zuccheri, molto più dannosi. Si sa, ma è bene ricordarlo, che lo zucchero è – lo spiega bene l’ultima ricerca del National Center For Biotechnology Information – un elemento che porta facilmente alla dipendenza.

«Nel corso degli anni ci hanno fatto intendere che i grassi fossero il male, che portassero a malattie cardiovascolari e che c’era differenza tra i grassi: i cosiddetti grassi buoni e quelli cattivi» dice la biologa nutrizionista e divulgatrice scientifica Martina Donegani.

«La verità è che da diversi anni la differenza tra grassi è svanita – in genere si demonizzavano quelli animali in favore dei vegetali – e sappiamo anche che i grassi, se assunti nelle giuste quantità, non provocano danni cardiovascolari».

Un alimento necessario

Non è dunque che i grassi siano salutari, di qualsiasi provenienza purché assunti non in quantità mostruose: i grassi sono una componente assolutamente necessaria per le nostre funzioni vitali.

«Sono componenti essenziali per la costituzione delle membrane cellulari, forniscono materiale per la costruzione delle cellule cerebrali, producono ormoni e veicolano vitamine liposobuli che altrimenti non si assimilerebbero» continua la nutrizionista Donegani.

«In particolare il rischio con questi alimenti cosiddetti “light” aumenta tra le donne: sono loro quelle più propense a comprare cibo con questa dicitura, inconsapevoli che l’assenza di grassi potrebbe portare a ritardi del ciclo mestruale e, nei casi più gravi, alla scomparsa stessa delle mestruazioni».

Se c’è qualcuno da incolpare per questa massiccia campagna anti-grassi, questi sono i vari marchi e le loro campagne marketing. Con le loro suggestioni immediate, pavloviane, ma anche con vere e proprie campagne. Del primo insieme fa parte l’esempio classico di una confezione di yogurt dove in bella vista capeggia un grosso 0 per cento di grassi: leggendo l’etichetta non ci si mette molto a scoprire che i grassi vengono soppiantati da molti zuccheri e additivi.

L’inganno

Il secondo caso riguarda i marchi e i loro investimenti nella ricerca. «Ricerche che andavano nelle direzioni che volevamo» dice Antonello Coroni, che ha lavorato per diversi anni a capo di strategie di marketing per marchi di primo piano.

«La cosa più comune era di dire ai consumatori che i grassi fanno male. Il perché è presto detto: in primo luogo avveniva la creazione di un target preciso che sfociava in un trend e poi perché faceva gioco alle industrie, che potevano controllare meglio il prodotto aggiungendo additivi e zuccheri, arrivando così al gusto e alla texture perfetta. Negli anni Novanta non c’erano molti studi che riguardassero la dipendenza da zuccheri, ma era cosa già risaputa. Ai tempi si poteva scrivere anche quello che si voleva sulla confezione».

Oggi, però, come spiega Coroni e come confermato dalla biologa nutrizionista Donegani, bisogna seguire delle linee guida sull’etichettatura frontale (sul retro, invece, la precisione è d’obbligo) e per ingannare il consumatore servono tecniche più subdole, come abbiamo visto nel caso dello yogurt.

Questione di quantità

Il gioco, come sempre del resto quando si parla di alimentazione, sta nella moderazione.

I Larn, ossia i Livelli di assunzione di riferimento dei nutrienti ci dicono non solo che i grassi sono indispensabili, ma anche in quale quantità e di che tipologia assumerne: dal 20 al 30 per cento dei nutrienti dovrebbero provenire dai grassi, con il 10 per cento massimo di grassi saturi.

«La differenza tra grassi vegetali e animali non regge più, se mai avesse retto» spiega ancora la dottoressa Donegani. «L’olio di cocco, per esempio, osannato, ha in realtà il 90 per cento di grassi saturi, mentre il grasso di pesci azzurri o del salmone, come è risaputo, è ricco di Omega 3, che è utile per proteggersi da malattie cardiovascolari ed aiuta le funzioni cerebrali. Se guardiamo invece all’apporto di calorie, una ricotta light, ad esempio, ha solo 30 calorie in meno di una normale».

La rimozione del grasso, tra le altre cose, significa la rimozione della soddisfazione palatale e il senso di sazietà.

Per questo, molto spesso, mangiare alimenti senza grassi ci porta in realtà a ingrassare: la privazione del piacere e il senso di non sazietà ci spingono semplicemente a mangiare di più. È ora di sfatare il mito dei grassi che fanno ingrassare, una convinzione diffusa per decenni che come risultato ha prodotto falsa informazione e diversi problemi in termini di salute.

È ora di vestire i panni dell’uomo primitivo e diffidare. È ora di non farci ingannare dalle false promesse delle campagne di marketing.

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