Clan, voti e potere. Sullo sfondo di questo intreccio troviamo i colonnelli del partito di Matteo Salvini nel Lazio. Su tutti il neo sottosegretario all'Economia del governo Draghi, Claudio Durigon, il capogruppo in regione Angelo Tripodi e il deputato, delfino di Matteo, Francesco Zicchieri. Tutti negano. C’è chi si difende accusando a sua volta i pentiti. C’è chi invece sostiene che non sapeva che i manifesti elettorali fossero finiti nelle auto dei clan. C’è chi non ricorda e non non sa. Tre politici che hanno il loro feudi elettorali tra Latina e provincia. A sud di Roma c’è una mafia feroce, controlla il territorio con la violenza, traffica droga, gestisce piazze di spaccio. Un’organizzazione talmente brutale e visibile impossibile da non percepire. Eppure la stessa organizzazione è ricercata da imprenditori e politici quando si tratta di iniziare una campagna elettorale senza esclusione di colpi. Non è un romanzo, non è fiction, è la realtà descritta in migliaia di faldoni di inchieste dell’antimafia da cui emerge un sistema criminale che spadroneggia a pochi chilometri dai palazzi del potere della capitale, sotto gli occhi dei governi e delle più alte cariche della magistratura.

Siamo in provincia di Latina. Qui i clan più potenti hanno origini nomadi: si chiamano Travali e Di Silvio. Connessi, per questioni familiari e soprattutto d’affari, con i più noti Casamonica di Roma. Ma che hanno anche rapporti con la camorra.

Il sottosegretario

Sono talmente influenti da infiltrare la borghesia locale: imprenditoria e mondo delle professioni. In questi ambienti i clan pescano gli uomini cerniera, che saldano il crimine alla politica. È da questo ambiente insospettabile che proviene uno dei sostenitori più generosi della Lega a Latina. In particolare di Claudio Durigon, che Salvini ha voluto sottosegretario all’Economia nel governo Draghi. La sua scalata al potere passa da Latina. Nella città pontina Durigon è stato esponente di spicco del sindacato di destra Ugl (di cui è stato anche vicesegretario generale dal 2014 al 2018), ha costruito il suo consenso, consolidato il suo potere.

La campagna elettorale del 2018 è stata un trionfo: il 4 marzo è stato eletto deputato. Una delle basi elettorali della Lega e di Durigon in città era nel palazzo Pegasol. Mentre in almeno due occasioni si è ritrovato con i simpatizzanti in un locale, lo Chalet Café in via del Lido. Due luoghi che ci portano al professionista Natan Altomare, in passato coinvolto, poi prosciolto, in un’indagine sul clan Di Silvio. Difeso dall’avvocato Pasquale Cardillo Cupo, è riuscito a dimostrare la totale estraneità alle accuse. I contatti con il boss, però, ci sono: una serie di telefonate in cui i due discutono delle lagnanze dell’altro capo clan di Latina.

Nel 2020 Altomare è finito di nuovo nei guai: ai domiciliari, insieme al suo capo Luciano Iannotta, potente imprenditore di Latina, leader di Confartigianato locale. I pm accusano Altomare di sequestro di persona e ricettazione, Iannotta di tentata estorsione, riciclaggio e una sfilza di reati. Il nome dell’inchiesta: Dirty glass, vetro sporco.

Altomare è stato di recente interrogato dai magistrati della procura antimafia di Roma, che ha secretato i verbali. Domani ha scoperto che Altomare ha confermato di aver pagato le feste allo Chalet Cafè alla Lega e a Durigon, di essere stato in contatto con il sottosegretario, che gli avrebbe chiesto un aiuto per la campagna elettorale. In cambio Altomare avrebbe desiderato un ruolo per recuperare la credibilità minata dall’inchiesta sui clan di Latina. «Altomare condivideva la nostra stessa passione politica e ci siamo ritrovati nella campagna elettorale, non conosco i dettagli personali», conferma Durigon contattato da Domani, e aggiunge: «Riguardo alle feste di cui mi chiedete ho solo partecipato ma non conosco i dettagli e non mi risulta che la Lega abbia avuto una sede a palazzo Pegasol».

L’appartamento diventato base della Lega e di Durigon nel palazzo Pegasol è stato offerto gratuitamente da Iannotta perché di sua proprietà, racconta Altomare. Uno dei referenti della Lega per la campagna elettorale era Andrea Fanti, amico di Iannotta e suo dipendente insieme ad Altomare. In pratica Iannotta ha offerto l’appartamento, Altomare il locale. Alle feste, almeno due, che Altomare conferma di aver pagato ai leghisti e all’attuale sottosegretario Durigon hanno partecipato anche uomini delle forze dell’ordine, dei servizi segreti, alcuni citati e coinvolti nell’inchiesta Dirty glass. Altomare, sentito in procura, ha confermato di aver visto alle feste uomini dei servizi segreti, sindacalisti dell’Ugl, agenti della polizia penitenziaria. Una si è svolta in pre campagna elettorale, un’altra per festeggiare la vittoria.

Altomare e Durigon nel periodo della campagna si scambiavano messaggi, che dimostrano il rapporto tra i due. Altomare aveva chiesto al politico leghista un aiuto, semmai un ruolo, per ricostruire il suo profilo pubblico. E Durigon lo avrebbe rassicurato prima di scomparire appena eletto. Per capire l’ambiente in cui si muove Altomare è utile leggere fino gli atti della recente indagine dell’antimafia. Sullo sfondo ci sono affari milionari, società all’estero, ricatti e l’uso dei metodi dei boss. Ma anche i rapporti di Iannotta con la cosca Di Silvio, la stessa con cui ha avuto rapporti Altomare, usata come “braccio militare”.

Nell’inchiesta Dirty glass c’è la fotografia di un sistema imprenditoriale che acquisiva società in difficoltà, corrompeva persone nella pubblica amministrazione e sfruttava relazioni con le forze dell’ordine per ottenere informazioni riservate. Un sistema che non si faceva scrupolo, quando necessario, di affidarsi anche a uomini legati al crimine organizzato, i Di Silvio per l’appunto.

Altomare e Iannotta sono accusati di un presunto sequestro di persona. «Forte rumore di schiaffi», si legge nei documenti degli investigatori. Le due vittime vengono interrogate, Iannotta, alla presenza di Altomare, dice: «Ammazza uno dei due… chi te pare scegli, ambarabaciccicocò». Silenzio, e poi l’urlo di Altomare: «Mi sono fatto la galera per un amico… cazzo». Segue, scrivono gli inquirenti, «rumore di percosse».

Il giudice chiarisce i ruoli: «Iannotta sparava colpi d’arma da fuoco vicino al volto (della vittima ndr) mentre Altomare, che si vantava di essere state in galera, percuoteva l’altra». Il sequestro è organizzato a maggio 2018, due mesi dopo la fine della campagna elettorale alla quale la coppia Altomare-Iannotta ha contribuito.

Chi preferisce non parlare di Altomare è Angelo Tripodi, il capogruppo del partito di Salvini nel consiglio regionale del Lazio: «Su Altomare non voglio dire niente. Su situazioni che riguardano il partito di cui io sono ospite non posso rispondere».

Perché tanto mistero?

Perché tanto mistero su Altomare? Orlando Tripodi detto Angelo è lo stesso citato da un pentito e da un testimone. Il primo, Agostino Riccardo, lo accusa di avere promesso soldi, un milione, in cambio di voti per farsi eleggere alla regione. Sentita la cifra, Tripodi risponde con una risata: «Secondo voi appena finite le amministrative penso a quello che dovrò fare due anni dopo?» Il consigliere della Lega si riferisce al fatto che alle amministrative del 2016 correva per diventare sindaco di Latina ma non con la Lega, bensì con una lista civica appoggiata dai neofascisti di Forza nuova. Il pentito Riccardo collega la promessa del milione alle elezioni successive del 2018 per il rinnovo del consiglio regionale. Ma, ricorda l’ufficio stampa di Tripodi, lo stesso Riccardo si smentisce: inizialmente aveva detto di non conoscerlo, poi cambia idea.

Tuttavia, poco prima di entrare nel partito di Salvini, il nome di Tripodi, mai indagato, emerge da alcuni verbali dell’antimafia. Quando era candidato a sindaco, infatti, avrebbe ricevuto voti raccolti da un candidato consigliere con l’intermediazione dei boss. Per questi fatti c’è un processo in corso, tra gli imputati uno dei candidati a capo di una lista civica a sostengo di Tripodi sindaco. «Io non sono mai stato indagato, uno dei 182 candidati che mi sostenevano avrebbe chiesto voti a queste persone, ma io non c’entro nulla», assicura Tripodi. Il metodo usato dal clan è scientifico, descritto da una testimonianza: «Ho dovuto consegnare la mia scheda elettorale così l’avrebbe portata da Tripodi per ricevere quanto pattuito». Il politico alla fine non è stato indagato.

Il pentito Riccardo, che accusa Tripodi, è un soldato. Lo è stato del clan Travali e poi del gruppo di Costantino Di Silvio detto “Cha Cha”, la mente politica dell’organizzazione, legato a Pasquale Maietta, già tesoriere e deputato di Fratelli d’Italia e ras del partito di Meloni nell’area pontina. Maietta è stato anche presidente del Latina Calcio, caduto in disgrazia dopo le inchieste per riciclaggio che lo hanno coinvolto e che riguardano, tra le altre cose, il crac della squadra locale. Tra “Cha Cha” e Maietta i rapporti sono provati. E queste connessioni tra i clan e il partito di Giorgia Meloni sono al centro dei verbali di Riccardo: ha raccontato ai pm dell’antimafia di Roma di 35mila euro dati dal partito per le elezioni del 2013 «in favore di Maietta». L’accusa ha scatenato l’ira di Meloni, che ha minacciato e accusato il quotidiano Repubblica di aver taciuto altre prove che scagionavano Fratelli d’Italia e ha denunciato il pentito per calunnia. Di certo c’è che Maietta e Di Silvio si conoscono bene. “Cha Cha” lo ha sostenuto, se questo sia avvenuto per sola fede politica o per denaro saranno le procure a stabilirlo.

Noi con Salvini

Ma torniamo alla Lega e ai pentiti. Oltre a Riccardo c’è anche Renato Pugliese, ex gerarca dei clan. «Durante la campagna elettorale per l’elezione a sindaco di Latina attaccavamo i manifesti per Noi con Salvini», si legge nel verbale del cinque giugno 2017. Le elezioni a cui si riferisce Pugliese sono quelle del 2016, Noi con Salvini all’epoca era il movimento utilizzato dal leader leghista per espandersi verso il centro sud poi assorbito nella nuova Lega per Salvini premier: il partito sovranista, parallelo alla Lega nord, fondato nel 2017 e che ha portato all’exploit delle politiche del 4 marzo 2018.

A Latina il movimento Noi con Salvini ha sostenuto il candidato Nicola Calandrini, nella coalizione era presente anche Fratelli d’Italia. Non c’era Angelo Tripodi, che correva per diventare primo cittadino sostenuto dalla destra neofascista. Alla fine, dopo il ballottaggio, verrà eletto sindaco il candidato del centrosinistra.

Secondo gli inquirenti i manifesti sono la prova del sostegno elettorale. L’organizzazione dell’attacchinaggio è militare: «Una volta attaccati ripassavamo dalla zona per verificare che non fossero stati coperti da altri». In alcuni casi accadeva che gruppi criminali sostenitori di altri candidati lo facessero e così venivano ricoperti nuovamente con quelli in dote al clan di Pugliese. Latina non è la sola città dove la campagna elettorale ha visto la mafia protagonista. Anche nella vicina Terracina si è giocato sporco. Per le amministrative il clan Di Silvio è stato ingaggiato da Gina Cetrone, ex consigliera regionale di centrodestra, avvicinatasi prima dell’arresto al movimento Cambiamo del presidente della Liguria, Giovanni Toti. Cetrone è sotto processo accusata di aver utilizzato i mafiosi per compiere estorsioni e gestire la campagna elettorale. Appoggiava il candidato di Forza Italia sconfitto al ballottaggio da Nicola Procaccini, delfino di Meloni appoggiato anche da Noi con Salvini. Chi di solito spaccia è arruolato anche per spostare voti. Lo rivela il pentito Pugliese. Nel riconoscere un suo complice dall’album fotografico mostrato dagli investigatori, dice: «Era con me nella campagna elettorale del 2016 a Terracina e Latina, attaccava manifesti elettorali di Salvini e Cetrone per conto mio e di Agostino. È amico di Di Silvio. Era una persona a disposizione anche per la consegna di cocaina». In un altro verbale di febbraio aveva già parlato della Lega di Salvini: «Abbiamo fatto campagna elettorale per Noi con Salvini». Pagati da un imprenditore dei rifiuti che puntava sull’astro nascente del partito in provincia di Latina: Francesco Zicchieri, eletto nel 2016 in consiglio comunale a Terracina, proprio dopo la campagna elettorale in cui gli uomini del clan dicono di aver fatto attacchinaggio per il partito di Salvini.

Zicchieri dopo due anni è diventato deputato, coordinatore regionale della Lega nel Lazio, e di recente è entrato nel cerchio dirigenziale più prossimo al leader, che lo ha voluto responsabile per il consolidamento del partito nel centro sud. Il suo nome compare un’altrs volta negli atti dell’inchiesta, ma al pari di Tripodi e Durigon non è stato mai indagato.

Durante un controllo di polizia di alcuni pregiudicati – tra questi il futuro pentito Riccardo – gli agenti hanno trovato nell’auto materiali elettorali di vari candidati della destra: tra questi i manifesti di Zicchieri, all’epoca candidato di Noi con Salvini per un posto in consiglio comunale a Terracina a sostegno del sindaco di Fratelli d’Italia. La conferma della presenza dei manifesti è in una testimonianza agli atti dell’indagine sui Di Silvio: «Agostino si presentò da solo a bordo di un’autovettura piena di manifesti elettorali». Oltre a quelli di Cetrone c’erano anche quelli Zicchieri. Il pentito Pugliese dice di avere attaccato per conto di altri «pregiudicati locali» i manifesti del leghista di Terracina.

Come mai il materiale di propaganda elettorale leghista era nelle mani dei Di Silvio? «Impossibile perché io non avevo manifesti, se qualcuno parla di me querelo» si difende Zicchieri. Ma c’è stato un controllo di polizia, nell’auto c’era materiale elettorale della Lega. «Il materiale di propaganda leghista veniva attaccato da ragazzi di Terracina, in campagna elettorale ognuno può prendere materiale elettorale e distribuirlo. Io non ho mai avuto contatti con questa gente» dice il deputato di Salvini.

Il ritrovamento dei manifesti è per gli investigatori la conferma che gli uomini dei Di Silvio hanno lavorato alla campagna elettorale. Un lavoro ben pagato, le indagini puntano a scoprire da chi. Pugliese, che con Riccardo è stato tra i manager degli attacchini più produttivi, sostiene persino di avere minacciato dei criminali rivali, puro loro impegnati nell’attacchinaggio di altri candidati della destra. Da questi screzi si è arrivati a una sorta di pacem sancita in un ristorante dove si è stabilito «di dividere i tabelloni elettorali», dice uno dei testimoni sentiti dalla procura.

Tra questi Gianluca D’Amico. Le sue parole sono essenziali per capire il sistema: «Dopo l’accordo i manifesti elettorali di mio padre non vennero più strappati o coperti, mentre l’atteggiamento verso i manifesti degli altri non mutò, continuarono a strapparli e coprirli sino al giorno delle elezioni». Funzionava così a Latina e provincia: «Questo servizio consisteva nel fatto che nessuno, sapendo che noi siamo i Di Silvio, poteva attaccare i manifesti sul nostro candidato».

I pentiti hanno rivelato l’esistenza di un listino prezzi: 10mila euro solo per l’affissione dei manifesti, 10 euro al giorno per i ragazzi che lavoravano (40 euro il conducente e 20 euro di benzina al giorno), 8 euro per la colla per i manifesti e i soldi per mangiare quotidianamente. Un servizio come un altro, appunto, offerto alla politica locale. Il sistema svelato ha portato a processo solo Cetrone. Tutti gli altri mantengono le distanze, si difendono, accusano i pentiti di essere calunniatori. I manifesti con le loro facce sono finiti nelle auto del clan a loro insaputa.

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