Il colosso del cashmere sotto amministrazione giudiziaria: la procura di Milano ha smascherato una filiera del lusso fondata su irregolarità sistemiche da parte delle ditte che ottengono i subappalti. Per i giudici, la casa madre è responsabile se non controlla gli abusi dei fornitori. Negli ultimi mesi casi simili hanno riguardato anche Armani, Dior, Valentino. Ora un protocollo d’intesa si pone l’obiettivo di ristabilire la legalità nella moda. Richemont sul processo a Firenze: «Una diretta conseguenza dell’efficacia dei nostri controlli»
*articolo aggiornato con una rettifica di Richemont
L’ultima notifica è del 14 luglio. Il tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria per la sede italiana di Loro Piana, colosso del cashmere controllato dal gruppo francese Lvmh. È il quinto caso, in poco più di un anno, in cui un brand dell’alta moda viene commissariato per aver tratto vantaggio da una filiera produttiva fondata sullo sfruttamento.
Se la casa madre non controlla i fornitori, e questi commettono abusi sistemici, anche il grande marchio è responsabile. Non solo dal punto di vista etico, ma anche legale. A confermarlo è la serie di casi aperti negli ultimi quindici mesi, a partire da Armani Operations fino a Dior, Valentino e Loro Piana.
Lo sfruttamento nascosto nella filiera
Secondo l’inchiesta, Loro Piana ha affidato la produzione di alcuni capi, tra cui giacche in cashmere, a una società esterna, la Evergreen, che a sua volta ha subappaltato alla Sor-Man snc di Nova Milanese. A cascata, il lavoro sarebbe finito in opifici cinesi privi di requisiti, già oggetto di interventi da parte dei militari: uno dei titolari è stato arrestato a maggio, dopo la denuncia della rappresentante legale della Sor-Man. Secondo la legale rappresentante di Sor-Man, le giacche venivano pagate dalla casa madre circa 118 euro l’una, mentre le società cinesi ne percepivano meno di 90. E il capo veniva poi rivenduto nei negozi del marchio tra i 1.000 e i 3.000 euro, con un ricarico tra i 1.000 e i 2.000 euro.
Loro Piana, pur non coinvolta direttamente negli abusi, non avrebbe «effettivamente controllato la catena produttiva» e le modalità di produzione adottate dai fornitori. Per la procura, ha omesso di compiere verifiche concrete sulle capacità imprenditoriali delle aziende subappaltatrici e non ha agito con tempestività per interrompere il legame commerciale. La società ha dichiarato di essere stata tenuta all’oscuro dal fornitore della presenza di ulteriori subfornitori nella filiera e ha comunicato di aver interrotto il rapporto commerciale a maggio, non appena apprese le irregolarità.
Negli ultimi anni, Loro Piana era stata anche oggetto di un’inchiesta giornalistica di Bloomberg, che aveva denunciato pratiche nel reperimento dei suoi filati pregiati in Perù, accusando l’azienda di sfruttare i lavoratori locali e la cattività della vigogna, animale selvatico delle Ande.
Il caso Richemont
Nelle ultime settimane, anche il gruppo svizzero Richemont, proprietario di marchi come Cartier, Van Cleef & Arpels, Iwc e Montblanc, è finito all’attenzione delle cronache. Il primo luglio si è tenuta la prima udienza del processo promosso dagli operai di Z Production contro Pelletteria Richemont Firenze, azienda incaricata di coordinare l’esternalizzazione della produzione per Montblanc, marchio del gruppo svizzero Richemont.
La loro richiesta è di riconoscere la responsabilità diretta del committente, il brand, per le condizioni di lavoro nella filiera. È la prima volta che un tribunale italiano è chiamato a pronunciarsi su questo punto. Se la causa dovesse essere accolta, potrebbe aprire la strada a centinaia di ricorsi simili.
A gennaio 2025, la filiale italiana del marchio aveva chiesto al tribunale di Firenze di vietare le proteste sindacali entro 500 metri dalla sua boutique di via Tornabuoni, invocando quello che gli attivisti hanno soprannominato un «daspo antisindacale». Dopo una campagna internazionale lanciata dalla Clean Clothes Campaign, Montblanc ha ritirato il ricorso, ma il tentativo resta emblematico. Su questo caso non risultano né indagini della procura né richieste di verifica da parte dell’ispettorato del lavoro, come indicato erroneamente in una prima versione di questo articolo.
Richemont – in una nota – precisa inoltre che «nell’ambito del ricorso presentato presso il Tribunale del Lavoro di Firenze da sei ex dipendenti Z Production nei confronti del loro ex datore di lavoro, la decisione di Pelletterie Richemont Firenze di terminare la collaborazione con Z Production nel 2023 è stata una diretta conseguenza dell'efficacia dei protocolli di controllo che la nostra azienda implementa su tutti i suoi partner commerciali» e che «Montblanc opera nel pieno rispetto delle leggi e del proprio codice etico, rigorosamente applicato a tutti i fornitori. L’azienda, per verificare la piena adesione dei fornitori al Codice etico e rispetto della normativa vigente, ha implementato da anni un sistema audit e ispezioni a sorpresa condotte tramite il protocollo internazionale Smeta. Qualora, a seguito delle suddette ispezioni, dovessero emergere inadempienze e prove fondate, come avvenuto nel caso di specie, è prassi consolidata interrompere i rapporti a favore di aziende che operano correttamente».
Infine che «il ricorso presentato» al tribunale di Firenze per impedire le proteste nell’arco di 500 metri dal punto vendita «mirava a regolamentare le manifestazioni nelle immediate vicinanze della boutique di Firenze, al fine di tutelare la sicurezza di dipendenti e clienti durante il periodo natalizio, a seguito di episodi e che avevano bloccato l'accesso alla boutique e, in alcune occasioni, ne avevano persino resa necessaria la chiusura anticipata. Montblanc respinge categoricamente le strumentalizzazioni riguardo alle motivazioni del ricorso, che non limitava in alcun modo il diritto di protesta o la libertà di espressione, ma unicamente preveniva potenziali disordini. Il ritiro del ricorso è motivato dall'assenza di ulteriori disagi nei mesi di dicembre e gennaio. Non vi è stato alcun "daspo antisindacale", termine che peraltro è improprio in questo contesto».
Da Armani a Valentino, una rete sistemica
Ad aprile 2024, anche la Giorgio Armani Operations, incaricata della produzione di borse e accessori, era finita in amministrazione giudiziaria per aver appaltato lavori a ditte che sfruttavano manodopera in condizioni disumane. Il provvedimento è stato revocato a febbraio 2025, dopo che il gruppo ha rivisto i controlli e adottato un piano interno di verifica della catena produttiva.
La stessa sorte è toccata a Manufactures Dior Srl, unità italiana di Dior, per cui il tribunale di Milano ha revocato l’amministrazione giudiziaria.
Diverso il quadro per Valentino Bags Lab, messa sotto amministrazione nel maggio 2025. Secondo le accuse, l’azienda non avrebbe «messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative» e delle «capacità tecniche delle aziende appaltatrici, tanto da agevolare colposamente soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato».
Anche Alviero Martini S.p.a. è stata coinvolta in un procedimento simile nel 2024, la cui revoca era arrivata già nell’ottobre di quell’anno.
La procura insiste sul fatto che non si tratta di aziende criminali, ma di marchi che si sono girati dall’altra parte. La responsabilità, in questi casi, è di tipo colposo. Ma il danno, economico e d’immagine, è significativo.
Un protocollo per salvare la reputazione (e i lavoratori)
A fronte della moltiplicazione dei casi, il 26 maggio 2025 è stato firmato in prefettura a Milano un protocollo d’intesa per la legalità nella moda, sottoscritto da istituzioni, forze dell’ordine e attori del settore. L’obiettivo è evitare che le inchieste si moltiplichino, istituendo una piattaforma digitale per tracciare i subappalti, una “green list” dei fornitori certificati e controlli rafforzati.
I dati raccolti dimostrano che il sistema del subappalto resta stratificato e difficilmente controllabile, anche per i grandi gruppi. Mentre i grandi marchi parlano di sostenibilità e trasparenza, gli operai invisibili continuano a lavorare a ritmi forzati, per salari da fame, senza tutele.
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