«Quest’anno il Ramadan non è lo stesso» dice a Domani Majed al Shorbaji, classe 1997, dal tetto dell’ospedale al Shifa di Gaza City. È l’unico posto in cui il suo cellulare riesce ad agganciarsi alla rete e a connettersi con il resto del mondo. «Stiamo digiunando da tempo, non mangiamo per 16-17 ore al giorno. Sono due mesi che non mangio un pezzo di pane. Non c’è niente qui al nord, neanche un pacco di farina. Mangiamo dolci e piante. E ho continui dolori allo stomaco». La guerra e la fame hanno fatto passare in secondo piano la festività del Ramadan, il mese sacro durante il quale i musulmani digiunano dall’alba al tramonto.

In pochi mesi la vita di Majed è cambiata radicalmente. Dal 2019 vive in Italia dove ha ottenuto la protezione internazionale come apolide. In più modi ha cercato di farsi raggiungere dal padre affinché venisse curato in un ospedale italiano, senza successo. Lo scorso settembre, però, le condizioni del padre sono peggiorate e ha deciso di tornare a Gaza, passando per il valico di Rafah, per andare a trovarlo. Il suo ritorno in Italia era previsto per il 15 ottobre ma gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e la conseguente offensiva dell’esercito israeliano lo hanno condannato a rimanere nell’inferno della Striscia.

«Sono in contatto con colleghi e amici in Italia ma non possono fare niente per me se non raccontare la mia storia», dice con una nota di nostalgia. Vuole tornare a Fidenza dove ha un contratto a tempo indeterminato in un’azienda che gestisce magazzini refrigerati. «Anche se andassi verso Rafah e aspettassi lì, la strada non è sicura in questo momento. Ho provato anche a contattare la Croce rossa internazionale ma non c’è stato niente da fare».

Intrappolato nell’inferno

Nonostante tutti i documenti in regola Majed non riesce a lasciare il nord della Striscia. Con rammarico mostra le mail del consolato generale italiano di Gerusalemme a cui ha chiesto aiuto, ma le risposte sono sempre le stesse. L’ultima mail ricevuta è un ennesimo diniego: «Purtroppo non ci resta margine di intervento per assisterla con una possibile evacuazione in quanto le autorizzazioni all’uscita non vengono rilasciate da questo consolato generale ma dalle autorità straniere competenti. Malgrado i nostri tentativi, non è stato possibile ottenere un’autorizzazione per lei».

Fonti informate del caso riferiscono che l’autorizzazione deve essere concessa dal Cogat, il Coordinator of government activities in the territories, l’ente israeliano che tra le altre cose controlla chi entra ed esce dai valichi che confinano con la Striscia. Senza l’assenso delle autorità di Tel Aviv, neanche l’Egitto può aprire le sue porte. Per gli uomini è ancora più difficile ricevere l’assenso a lasciare la Striscia, nella maggior parte dei casi i dinieghi non vengono motivati. Altre volte sono giustificati da generiche questioni di sicurezza. «Non so perché non mi autorizzano. Eppure ogni giorno vedo gente autorizzata che passa da Rafah», dice Majed.

Il ministero degli Esteri italiano non ha voce in capitolo. Dall’inizio dell’operazione militare israeliana su Gaza, secondo fonti diplomatiche, sono state evacuate 70 persone con cittadinanza italiana o palestinesi con legami di parentela con italiani. Mentre per questioni umanitarie sono stati evacuati 150 feriti, la maggior parte donne e minori, accolti in diverse strutture sanitarie italiane.

Dal campo all’ospedale

Da quando è rientrato a Gaza fino al 7 ottobre, Majed ha vissuto all’interno del campo profughi di Jabalya dove è cresciuto fin da bambino.

Da un paio di mesi ha dovuto abbandonare anche quella casa. «Dopo il bombardamento siamo scappati», racconta. Nei raid aerei, eseguiti dall’esercito israeliano tra il 31 ottobre e il 1° novembre, sono morte la moglie e la bambina di due anni di suo cugino. Il resto della famiglia si è salvato.

Con pochi averi in mano, Majed e otto membri della sua famiglia hanno trovato rifugio a circa sette chilometri di distanza a sud dal campo profughi, nell’ospedale al Shifa, il più grande della Striscia.

Lo stesso in cui l’esercito israeliano lo scorso 15 novembre aveva fatto irruzione con quasi cento soldati alla ricerca degli ostaggi detenuti da Hamas e mai trovati.

«Lì è dove fanno le operazioni chirurgiche più delicate» dice Majed indicando un grosso edificio di fronte a lui. «Qui la situazione è tragica, è pieno di feriti e manca tutto».

Il dramma umanitario

L’obiettivo di trovare una tregua umanitaria entro l’inizio del Ramadan è fallito miseramente, soprattutto dopo la cosiddetta “Strage della farina” del 29 febbraio nella quale sono morte almeno 112 persone mentre altre 700 sono rimaste ferite durante la consegna degli aiuti umanitari a Gaza City.

L’esercito israeliano ha ammesso che alcuni suoi soldati hanno sparato sulla folla durante la distribuzione degli aiuti alimentari, generando panico tra le persone e tra gli autisti dei tir che trasportavano cibo e beni di prima necessità. Nella fuga decine di corpi sono rimasti schiacciati dalle ruote dei mezzi, riempiendo di morti e feriti le poche strutture sanitarie funzionanti rimaste.

«Due miei fratelli erano lì. Mi hanno raccontato che hanno sentito gli spari e poi uno dei camion li ha urtati. Fortunatamente stanno bene e sono tornati vivi», spiega Majed. Oggi i camion carichi di alimenti entrano con il contagocce nella Striscia, sull’orlo della carestia secondo le Nazioni unite, ma per evitare una tragedia simile a quella del 29 febbraio ora gli aiuti arrivano anche dal cielo e dal mare. Una nave dell’ong spagnola Open Arms, è salpata il 12 marzo dalle coste di Cipro carica di 200 tonnellate di beni di prima necessità, scaricati al largo in corrispondenza al quartiere di Sheikh Ajleen, a Gaza City.

«Prendere un pacco di farina è difficile. Non c’è una distribuzione, è tutto una lotta. A volte gli aiuti vanno a finire in mare e la gente si tuffa disperata nell’acqua fredda. Avete letto che ci sono stati anche dei morti?». Majed si riferisce ai tragici eventi dell’8 marzo, quando il paracadute non si è aperto e uno degli scatoloni carichi di aiuti è caduto sulla folla uccidendo cinque persone. Dal tetto dell’ospedale la videocamera del suo cellulare mostra il via vai di gente per le strade.

«Loro vendono dei dolci, è l’unica cosa che si trova in giro. Ma non tutti hanno i soldi per comprarli», spiega indicando con il dito un paio di persone munite di carretto e posizionate all’entrata dell’ospedale. Passa le giornate alla ricerca di acqua potabile e cibo per la famiglia. A volte entra anche qualche lavoretto.

«Quando riesco vendo eSim a chi ne ha bisogno. Qui a pochi metri da me ci sono decine di persone collegate alla rete che stanno parlando al telefono», spiega Majed. Le eSim sono delle schede telefoniche digitali che permettono a un dispositivo elettronico di accedere alla rete cellulare, l’unico modo per gli abitanti di Gaza di mettersi in contatto tra loro e con l’esterno. Il software riesce a collegare il telefono a reti lontane, consentendo quindi di superare il collasso della quasi totalità delle infrastrutture di comunicazione causato dagli attacchi aerei israeliani o dall’assenza di energia. «Quando ero bambino ho visto tanti bombardamenti. Nel 2008, nel 2012 e anche nel 2014. Nel 2008 avevo poco più di dieci anni, avevo molta paura. Ma non ho mai visto nulla come quello che sta accadendo oggi. Non è una semplice guerra» dice Majed prima che si interrompa la videochiamata.

Qualche ora più tardi, dal suo cellulare invia il bollettino più letto di Gaza, quello delle evacuazioni giornaliere autorizzate, e alcuni video di bambini che nella spazzatura e nella fanghiglia cercano qualcosa da mangiare.

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