Non basta essere stati. Marco Di Vaio poteva permetterselo: spiagge, ricordi, interviste. Forever ex. Invece no. «Quando ho smesso, per un anno e mezzo ho pensato ancora da calciatore. Ma volevo costruire un pensiero diverso». Oggi, a 49 anni appena compiuti, è uno dei dirigenti più giovani e apprezzati della Serie A. Ma ci è arrivato con pazienza, studio e coraggio. Il coraggio di rimettersi in gioco. «Devi crearti una credibilità nuova, da dirigente. Non è una conseguenza essere un buon dirigente solo perché sei stato un buon giocatore».

Chiamatela umiltà, curiosità, necessità. O semplicemente intelligenza. La vittoria della Coppa Italia col Bologna è la vetta visibile. Ma sotto, in questi dieci anni dietro la scrivania, c’è stato tutto: dubbi, fatica, scelte. Miserie e splendori. Il calcio, del resto, è un'avventura. «Sei responsabile di tantissime persone, tutto ruota intorno a te», racconta dal suo studio a Casteldebole. Club manager, capo dell’area scouting, ds in ascesa: ha fatto la gavetta. Quasi settanta viaggi l’anno, migliaia di profili da scandagliare («Vederli live è la mia cifra»), mail, chiamate, incontri, call.

Lo studio di Marco è come un microcosmo. Le pile di fogli con i nomi e le caratteristiche dei giocatori: i sogni di domani. E la mappa del mondo dietro alle spalle. La luce dalla finestra che dà sui campi. Di Vaio guarda fuori, sorride: «Sono cresciuto qua. Bologna è proprio casa. Non vorrei essere in nessun altro posto al mondo».

Dieci anni dietro la scrivania. Com’è stata questa gioia da dirigente?

È completamente diversa rispetto a quando giocavo. La vittoria è sempre bella, ma da calciatore ti sembra tutto un po' più naturale. Da dirigente costruisci ogni cosa, pezzo per pezzo. E quando succede, come col Bologna, capisci quanto è difficile. Una gioia immensa, più grande di tutte quelle da calciatore.

Come si vive una vittoria così?

Con emozione, con pianti, con una sensazione fortissima. Condividerla con la città, con la mia famiglia, con tutte le persone che lavorano qui. Sono diciassette anni che sto a Bologna. Ne abbiamo viste di brutte e di belle. Questa vittoria è stata il segno di un percorso incredibile.

È una gioia più completa?

Quando giocavo non c’erano i social, il calcio era più tradizionale. Ora c’è una condivisione diversa, ci sono connessioni diverse. Rivedo il giorno della finale in ogni dettaglio. Abbiamo avvertito tutti il peso della responsabilità e l’abbiamo trasformato in un regalo per la città.

Ha un momento che le è rimasto dentro?

Quando sono salito a vedere il campo e ho trovato il muro dei nostri tifosi. Alle sette di sera erano già lì. Tornando giù, ho detto al mister: “Se hai cinque minuti, fammi entrare”. Tre. Solo un minuto. Sarebbe stato un sogno. Mi sarebbe proprio piaciuto giocarla. Ho la pelle d'oca.

Marco Di Vaio con la Coppa Italia vinta. FOTO BOLOGNA FC

Il ruolo da dirigente?

Non era programmato. Stavo finendo la carriera, pensavo a cosa fare. Poi, a settembre, il presidente ha comprato il Bologna. Era il 2015. Mi ha chiesto di tornare e ho detto subito sì. Ma non ero pronto. Per un anno e mezzo ho continuato a ragionare da calciatore. Guardavo le partite e mi chiedevo se avrei potuto ancora dare qualcosa in campo. Poi, piano piano, stando vicino alla squadra, studiando, prendendo il patentino, ho cominciato a cambiare. Ho smesso di sentire il bisogno di giocare e ho iniziato a costruire un pensiero nuovo.

Cosa significa davvero pensare da dirigente?

Significa non pensare più solo a te stesso. Da calciatore sei concentrato sul tuo corpo, sulla tua forma, sulle tue partite. Da dirigente devi pensare a un sistema, alle persone, agli equilibri interni. Devi avere autorevolezza, ma anche empatia. Parli con gli stessi giocatori che fino a poco prima erano accanto a te nello spogliatoio. Serve una credibilità nuova, vera. E devi guadagnartela anno dopo anno. E soprattutto, devi imparare a guardare tutto dall’alto, non da dentro il campo. Non contano più solo i novanta minuti.

Ha mai pensato: non ce la faccio?

Ci sono stati anni difficili, senza risultati. Sentivo il peso della responsabilità verso i tifosi. Non avevo ancora gli strumenti per incidere davvero. Poi, con l’arrivo di Sinisa, il presidente ha deciso di cambiare tutto. Da lì è iniziata la costruzione del Bologna di oggi.

Ricorda la sua prima trasferta da dirigente?

Sì, Roma, contro la Lazio. La mia prima partita in Serie A da dirigente. Una coincidenza bellissima, perché avevo esordito proprio lì da calciatore.

Qual è il lavoro del direttore sportivo?

È la chiave della parte tecnica. Sei dietro a tutto: squadra, comunicazione, parte medica. Tutti si confrontano con te. È una responsabilità grande, ma se sei cresciuto con le persone giuste, puoi farcela. E poi ogni operazione, ogni acquisto, è sempre un lavoro di gruppo. Dentro ogni trattativa c’è un pezzo di ognuno di noi.

Uno dei suoi primi acquisti?

Tomiyasu. L’ho aspettato a cena dopo una partita. Gli ho parlato del progetto. Poi l’operazione l’hanno finalizzata Fenucci e Bigon, ma quel primo contatto era il mio ruolo: far capire che cosa stavamo costruendo. Avevamo fatto tutto, visite mediche pronte e prenotate. Lui stava giocando in America. Prese un volo, arrivò qui. Vide tutto: la città, il centro tecnico. Sembrava tutto ok. Ma volle tornare in Giappone per parlarne con la famiglia. Una settimana d’attesa, con il fiato sospeso. Poi ha detto sì. Un mese dopo, stessa cosa con Skov Olsen.

Cosa racconta ai giocatori per farli venire a Bologna?

Oggi è più semplice. Abbiamo una storia da raccontare. I ragazzi vedono che qui si cresce. Quando chiami, ti ascoltano. Raccontiamo la città, il club, la quotidianità. Mostriamo dove siamo e dove vogliamo arrivare. La cosa bella è che oggi Bologna parla da sola.

Com’è la nuova generazione di calciatori?

Molto più preparata, ma anche più fragile. Sono esposti, vivono sui social, crescono sotto pressione. Però sono attenti, professionali, seguiti. Hanno figure attorno, fanno mental coaching, curano l’alimentazione. Sono pronti, ma più delicati. Hanno bisogno di essere accompagnati, non giudicati. È una generazione che mi piace.

Le manca il calcio che giocava?

No, non sono un nostalgico. Era un altro mondo. Oggi mi interessa far crescere i ragazzi, aiutarli a migliorare. Questo è il bello.

Il suo peggior difetto da dirigente?

L’inesperienza, all’inizio. E l’istinto. Avrei voluto sempre intervenire subito, come in campo. Invece ho imparato la pazienza. Capire quando parlare, e quando aspettare. È una cosa importante.

Chi l'ha ispirata?

Sono tanti. Impossibile citarli tutti. Luciano Moggi mi chiamava alle sette del mattino, veniva a prendermi a casa, mi spiegava cosa significasse stare alla Juve. Mi dava fiducia e bastonate, al momento giusto. Poi Rino Foschi: da ragazzo mi ha curato, dato consigli. Sono stato tre settimane a Cesena, a casa sua. Mi ha trattato come un figlio. Hanno avuto una grande parte umana. Oggi imparo da tutti. Con Corvino non ero pronto, non capivo il mercato, le cose da fare. Da Riccardo Bigon ho imparato l’organizzazione. Riccardo mi ha dato tanto. Da Walter Sabatini la passione per il dettaglio, il furore. Sabatini è un appassionato di calcio vero. Si innamora di un giocatore, magari due giorni dopo l’amore è finito. Ma la passione che ha è ineguagliabile. E poi Giovanni Sartori, con cui lavoro adesso. Ha una curiosità contagiosa. L’altro giorno parlavamo di ChatGpt, come applicarla nel calcio... Pensa te. È un uomo aperto, intelligente, ha voglia di scoprire. E questo, per uno che ha fatto tutto, non è scontato.

Com'è il mercato oggi?

Feroce. Fino a qualche anno fa c'erano dei valori. Oggi non ci sono più regole. Le grandi squadre comprano ovunque, in anticipo, anche ragazzi con poche partite. E poi ci sono realtà nuove che competono con te, ne trovi dappertutto: in Germania, in Francia, in Belgio. Devi essere veloce. Il tempo non c’è. Se aspetti troppo, non li prendi più.

Il suo sogno?

Da calciatore ho cambiato tredici squadre. Da dirigente vorrei farne una sola. Questo è il mio sogno. Quest’anno vorremmo confermarci, restare lì, in Europa, magari andare avanti in Coppa Italia. Consolidarci. E vivere questo sogno con la nostra gente, la gente di Bologna.

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