«Nel 99 per cento dei casi si tratta di respingimenti da parte delle milizie libiche», spiega Iasonas Apostopoulos, coordinatore del team di soccorso di Mediterranea, denunciando la complicità dell’Unione europea
Domani è a bordo di Mediterranea – la nuova nave di Mediterranea Saving Humans in mare per la sua seconda missione – per documentare le attività di ricerca e soccorso che l’organizzazione svolge nel Mediterraneo centrale. Qui le puntate del diario di bordo.
Gran parte del lavoro delle navi della flotta civile, come Mediterranea, è la ricerca di imbarcazioni in difficoltà. «È la parte in cui si investe più tempo, ma è anche quella più importante», spiega Iasonas Apostopoulos, coordinatore del team di soccorso, durante la preparazione della 23esima missione di Mediterranea Saving Humans.
Da quello che viene chiamato Monkey Island – la zona che si trova sopra la plancia di comando – venerdì mattina, dopo aver superato l’isola di Lampedusa, è iniziato il primo turno di Sar Watch. Navigando in acque internazionali, a sud di Lampedusa e a nord delle acque territoriali libiche, per ore all’orizzonte sono apparse solo piattaforme petrolifere. Poi, verso le 14.30, quando ormai era il turno del terzo gruppo, Fatima – parte del personale marittimo ed è Rhib Driver (incaricata di guidare uno dei due gommoni di soccorso) – con il binocolo ha intravisto qualcosa di azzurro che fluttuava nell’acqua. Difficile capire da lontano cosa fosse. Così il Bridge ha deciso di cambiare rotta e navigare verso il target.
Man mano ci si è resi conto che si trattava di un barchino azzurro, di legno, vuoto: nessuno a bordo, mancavano anche i motori. «Questo, 99 volte su 100, testimonia un respingimento effettuato dalle milizie libiche che percorrono quest’area», spiega Apostopoulos, che da dieci anni lavora in ambito migratorio, a partire dalla crisi dei rifugiati a Lesbo in Grecia nel 2015, quando in tre mesi arrivarono circa un milione di persone.
«Dopo aver catturato i rifugiati, le milizie rubano tutto: borse, denaro e anche i motori delle barche», continua. E sottolinea come non si tratti di azioni casuali ma «vengano pagate dall’Unione europea per un unico obiettivo: presidiare i confini marittimi dell’Europa contro le persone migranti, fermare le imbarcazioni, rimandando le persone nel circolo del mercato degli schiavi in Libia».
Documentare
Da qui, uno degli obiettivi delle missioni delle ong e della società civile, che sono rimaste le uniche a pattugliare questo tratto di mare: documentare. «Assistiamo a questi crimini quotidianamente», dice il coordinatore del soccorso, «e riportare le persone in aree in cui sono perpetrate atrocità documentate sulle persone migranti è una grave violazione del diritto internazionale».
Esiste un principio sancito a livello internazionale che lo vieta. È il principio di non-refoulement, che impedisce di respingere una persona in un paese in cui la vita e la libertà sarebbero a rischio. E in Libia sono stati diversi organismi internazionali a documentare gravi violazioni dei diritti, a partire dalla commissione di inchiesta dell’Onu.
«La nostra missione non ha come unico scopo salvare le persone in mare», precisa Apostopoulos, «ma mira anche a testimoniare e contrastare i respingimenti (pushback) e i crimini in mare finanziati dall’Unione europea».
La Sar libica
Dalla firma del memorandum Italia-Libia nel 2017, promosso dall’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, ad oggi le violenze documentate della cosiddetta guardia costiera libica nei confronti delle navi del soccorso civile sono state una sessantina. Il 2 novembre l’intesa si rinnoverà automaticamente per altri tre anni, un rinnovo assicurato dalla mozione approvata dalla maggioranza lo scorso 14 ottobre.
Se per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si tratta di «uno strumento indispensabile per proseguire la strategia nazionale di contrasto ai trafficanti di migranti e di prevenzioni delle partenze dalla Libia», per chi da anni svolge attività di ricerca e soccorso in mare «è un percorso non affatto casuale». Tommaso Basilici viene da Genova, è un soccorritore alpino e fa parte di Mediterranea dalla sua fondazione. È uno dei membri del Rescue Team, la squadra che opera il soccorso.
«Con il memorandum», spiega Basilici, «si è arrivati prima a costruire una cosiddetta guardia costiera libica, finanziandola, fornendo formazione e imbarcazioni. Per poi, in un secondo momento, riuscire a creare un’area Sar libica». Cioè una zona in cui gli stati si impegnano a fare attività di ricerca e soccorso. Dal 2018 la Sar libica è registrata formalmente all’Organizzazione marittima internazionale, l’Imo.
Ma per Apostopoulos è una contraddizione: «Un’area di ricerca e soccorso richiede un luogo sicuro di sbarco dei sopravvissuti. In Libia non c’è nessun posto sicuro. Come può l’Europa riconoscere la Sar libica?».
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