Il team sanitario a bordo è composto da un medico e due infermieri. Ma lo spazio di una nave è ridotto e tutto l’equipaggio, nel caso in cui ci siano molti pazienti critici, deve essere istruito. Essere in mare è «un dovere assoluto di fronte alla vergogna di quello che continua a succedere nell’indifferenza totale»
Domani è a bordo di Mediterranea – la nuova nave di Mediterranea Saving Humans in mare per la sua seconda missione – per documentare le attività di ricerca e soccorso che l’organizzazione svolge nel Mediterraneo centrale. Qui le puntate del diario di bordo.
«I corpi raccontano, soprattutto le ferite». Amanda Prezioso ha 36 anni ed è tornata da pochi mesi dalla Striscia di Gaza, dove ha lavorato in due missioni come infermiera nella clinica di Emergency. Fa parte del team sanitario di Mediterranea, la nave della flotta civile che è tornata in mare per la seconda volta.
«A Gaza ho visto molte persone con spari alla schiena. Questo racconta una dinamica: fa capire che la persona in quel momento si stava allontanando da chi ha sparato. Significa che era in fuga. Oppure in Afghanistan molti bambini arrivavano in clinica senza una mano: sappiamo che stavano afferrando qualcosa che poi si è rivelata essere una mina», spiega Prezioso. È la sua prima missione in mare, ma ha esperienza nel campo umanitario: a Gaza, in Afghanistan e in Ucraina.
Allo stesso modo le persone che attraversano il Mediterraneo portano sul corpo i segni delle violenze e delle torture subite in Libia: «Percosse, tagli, a volte anche ferite autoinferte per la disperazione di trovarsi in quelle situazioni di detenzione». Ne parla dal piccolo ospedale della nave il coordinatore medico della missione, Gabriele Risica, che tutti chiamano Mimmo. È medico cardiologo in pensione e non è la prima volta che si imbarca con Mediterranea Saving Humans. Ha all’attivo cinque missioni e ha anche partecipato all’apertura di un ospedale cardiochirurgico di Emergency in Sudan.
Chi decide di migrare nella maggior parte dei casi è in buone condizioni di salute. Per questo non ci si trova di fronte a patologie croniche, ma a problemi legati al viaggio, come scabbia, raffreddori, bronchiti, mal di mare. Oppure i naufraghi possono avere ustioni da carburante, intossicazioni quando sono esposti ai fumi dei motori.
«Il loro viaggio non solo viene narrato a parole, ma anche per come sono e per lo stato psicologico in cui si trovano», racconta Risica, sottolineando come con il tempo emergano anche i traumi psicologici, per aver «visto episodi di efferatezza che neanche ci immaginiamo. Molti di loro raccontano di aver assistito all’uccisione di persone perché la famiglia non rispondeva al telefono per pagare ulteriormente i carcerieri libici».
Il lavoro delle ong nel Mediterraneo è, per il cardiologo, un dovere assoluto, «di fronte alla vergogna di quello che continua a succedere nell’indifferenza totale del nostro paese, del nostro governo, dell'Europa in generale».
Il coordinamento medico
Quello che distingue una missione in mare da altre operazioni umanitarie è il personale ridotto, così come gli spazi. Nella nuova nave di Mediterranea c’è, come detto, anche un piccolo ospedale. Tre posti letto, la strumentazione per cure semi intensive e per monitorare le funzioni vitali. Nella 23esima missione di Mediterranea ci sono un medico e due infermieri. «In tre non saremmo in grado di affrontare l’arrivo di molte persone con necessità sanitarie», dice.
Prima della partenza, mentre la nave era ferma al porto di Trapani, i sanitari hanno quindi insegnato ai marittimi e agli attivisti le manovre che servono in caso di arresto respiratorio o cardiocircolatorio. «Tutto il personale della nave è addestrato, anche per l'utilizzo del defibrillatore semiautomatico, che abbiamo a disposizione», spiega Risica.
Ci sono due scenari possibili: un soccorso normale, dove i casi con necessità sanitarie sono pochi. Oppure una Mass Casualty, quando il numero di pazienti supera la capacità delle risorse sanitarie. In quest’ultimo caso il team medico ha riorganizzato tutto l’equipaggio. «In qualità di responsabile sanitario», spiega Risica, «avviso il capo missione e il comandante della necessità di dare l'allarme per la Mass Casualty. Se loro concordano, si lancia l'allarme e tutti sanno che cosa devono fare».
C’è chi è competente della zona verde, dove si posizionano le persone che riescono a camminare e si misurano i parametri vitali. Alla zona gialla sono portate le persone che non riescono a camminare ma che rispondono agli stimoli. Quella dell’ospedale è invece la zona rossa, dove vengono condotti i pazienti in condizioni più critiche, ma ancora salvabili. E, infine, precisa il cardiologo, «purtroppo in una situazione di Mass Casualty bisogna scegliere tra chi è ancora salvabile e chi è in condizioni troppo gravi per poter essere curato».
Ad esempio, non è possibile affrontare arresti cardiaci. C’è infatti una zona nera, dietro l’ospedale, «dove purtroppo vengono portati i cadaveri che recuperiamo dal mare o le persone che sono in condizioni troppo gravi per essere curate».
L’idea dietro al Mass Casualty Plan, aggiunge Prezioso, che lo ha applicato anche a Kabul, «è di salvare più persone possibili senza purtroppo dedicare tempo ai casi che richiedono molta attenzione e che rallenterebbero il processo per tutti gli altri».
Il filo rosso
Il personale medico ridotto obbliga dunque a istruire chi non ha una formazione sanitaria, anche attraverso diversi protocolli. Andrea Coltelli ha collaborato a scrivere le Sop, le procedure operative standard, di Mediterranea per tutta l’area pediatrica, in cui lui si è specializzato come infermiere. Ci sono quindi linee guida sulla cura del neonato, del cordone ombelicale, sulla sua corretta alimentazione o sulle manifestazioni cutanee tipiche. Così che tutti sappiano riconoscerle.
Coltelli, oltre alle missioni in mare, è stato anche in Ucraina con Mediterranea. A Leopoli, per un progetto di assistenza di base: «Eravamo lontani dal fronte, ma erano visibili tutte le conseguenze della guerra», racconta. Ed è ciò che accomuna le persone che i tre sanitari hanno incontrato nelle altre missioni e chi attraversa il Mediterraneo: «Per salvarsi la vita, si è costretti a scappare e spesso ci si ritrova a fare una rotta come quella in cui ci troviamo ora», conclude Prezioso.
Il filo rosso per Risica è «il rispetto della persona, che non è un numero, ma una persona con un trascorso, una famiglia, una cultura, delle aspirazioni. Non sono disperati, ma persone piene di speranza».
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