Effetto Trump pure nell’hockey su ghiaccio? La domanda nasce fra Montreal e Boston, arriva in Svezia e in Danimarca, sedi dei Mondiali che partono venerdì 9 maggio, per tornare in Nordamerica dove la primavera inoltrata è la stagione in cui sui assegna la Stanley Cup, il titolo della vincitrice della National Hockey League, il campionato dei campionati dello sport inventato proprio dai canadesi. Canadesi che vivono in una terra che per Donald Trump potrebbe senza fare tante storie diventare il cinquantunesimo Stato dell’Unione e che il tycoon ha cominciato a pressare a colpi di rialzi di dazi e con un’aggressiva moral suasion propagandistica.

Parole diventate boomerang anche nelle recenti elezioni canadesi in cui la reazione ai desideri di annessione del presidente statunitense è diventata un jolly elettorale speso alla grande da Mark Carney, che con una super rimonta ha spento le luci della possibile festa sovranista vincendo da premier uscente. Con tanto di slogan importato proprio dall’hockey, «elbows up», «gomiti alzati», cioè: ora difendiamoci nel miglior modo possibile.

E così nella casa degli Edmonton Oliers, Carney ha indossato per celebrare la vittoria la casacca numero 24 ricordando i suoi trascorsi: giocava ad hockey come portiere ad Harvard, proprio l’università che Trump sta boicottando per la sua autonomia tagliandole i contributi federali. Chissà se si è parlato di tutto questo nell’incontro dell’altro giorno fra i due, in cui Carney ha usato toni moderati per ribadire però con durezza la sostanza del suo discorso: «Non siamo in vendita».

Lo sport nazionale

Il fatto è che quando dici hockey su ghiaccio dici Canada, un po’ come il rugby per la Nuova Zelanda, il baseball per Cuba, il calcio per Brasile o Argentina. E se provi a toccarlo la scossa non può non essere pure sportiva. D’altronde, ha scritto l’autore Rick Salutin per descrivere la sua gente, «l’hockey è probabilmente il nostro unico simbolo culturale universale». Nelle pagine di Alice Munro, premio Nobel per la letteratura del 2013, i riferimenti sportivi sono molteplici. Come quando la scrittrice descrive la sua vita familiare e racconta il fratello Owen che «se ne stava seduto per terra in camera sua a ritagliare figurine minuscole di giocatori di hockey che poi divideva in squadre e faceva giocare» e che «a queste partite si dedicava con divino rapimento».

Dai fratelli ai vicini di casa, però, la vicenda cambia. E anche se ti chiami Stati Uniti, non puoi permetterti di superare la soglia che ha abbondantemente scavalcato Trump. Immaginate due compagni di classe che giocano insieme. Poi una sera uno dei due dice all’altro: voglio le chiavi di casa tua, non te la prendere troppo, e poi se non me le dai magari saranno pure dolori.

Oltreché nell’hockey su ghiaccio, Canada e USA giocano lo stesso campionato anche nel basket o nel calcio, ma una cosa è giocare insieme, un’altra essere mangiato dal più grande (anzi no, il Canada è più grande degli Stati Uniti come superficie, meglio, dal più vorace). E così alla vigilia dei Mondiali che partono in Svezia (Stoccolma) e in Danimarca (Herning), va in onda di nuovo la rivalità che dall’avvento del Trump bis si è già arricchita di diverse avventure.

A pochi giorni dal battesimo presidenziale trumpiano, una prima sfida fra le due Nazionali era finita letteralmente a botte, tre risse in un pugno di secondi a Montreal, un record assoluto. Nella seconda, a Boston, nella finale del 4 Nations Face-Off (c’erano anche Svezia e Finlandia), una specie di All Star Game della NHL, ci si è accontentati di una sfida sonora a colpi di fischi ai rispettivi inni. Quello canadese si è pure rigenerato sulla scia dei proclami trumpiani. La cantautrice Chantal Kreviazuuk ha infatti cambiato persino le parole e il verso «tutti noi comandiamo» è stato rincarato con un eloquente «che solo noi comandiamo».

Risse e rivalità

Per la cronaca, il Canada ha vinto 3-2 nel tempo supplementare, quasi un’Inter-Barcellona su ghiaccio e l’allora premier Justin Trudeau ha spedito a Washington un messaggio: «Non puoi prenderti il nostro Stato, non puoi prenderti il nostro gioco». E su quel ”nostro” è difficile dargli torto perché la prima partita dell’hockey moderno si svolse ad Halifax e le sette regole base del suo svolgimento si devono nel 1879 a un gruppo di studenti della McGill University di Montreal. Tanto per dirvi, visto che i Mondiali sono imminenti, nella rassegna iridata, i canadesi hanno vinto 28 volte (gli statunitensi due) fra gli uomini e 12 (USA a 10) fra le donne. Anche se il suo record di gol è stato quest’anno superato dal russo Alexander Ovechkin, è sicuramente il canadese Wayne Gretzky l’uomo simbolo della storia dell’hockey. E anche nel Mondiale che comincia e dove mancheranno comunque molte stelle della NHL impegnate nei loro playoff, il Canada è sopra gli Stati Uniti (campione uscente è la Repubblica Ceca, mentre l’ultimo oro olimpico l’ha vinto la Finlandia) nel pronostico. Ma la vera resa dei conti, dove ci saranno davvero tutti i campioni, è prevista fra un anno alle Olimpiadi a Milano.

D’altronde negli scaffali dell’hockey ghiaccio, ci sono diversi intrecci geopolitici da ricordare. Il film Miracle racconta la famosa vittoria degli Stati Uniti contro lo squadrone sovietico che allora stravinceva tutto, alle Olimpiadi di Lake Placid 1980. Quanto ai Mondiali, l’hockey su ghiaccio scrisse un pezzo di storia nel 1969. Una vittoria della Cecoslovacchia sull’Urss (che avrebbe però vinto il titolo) a Stoccolma scatenò una gioia furiosa a Praga nei mesi della frustrazione popolare successiva all’invasione dei carri armati russi.

Fra cori, canti e clacson, furono spaccate le vetrine di diversi uffici sovietici in città. Qualche giorno dopo il grande fratello moscovita completò l’opera cominciata con i carri armati, depose definitivamente Alexander Dubcek, leader della primavera di Praga, e mise al suo posto il burocrate Gustav Husak.

Ma il ghiaccio dell’hockey ha anche provato a sciogliere quello della guerra fredda: successe nel 1972, quando nelle “Summit Series”, la nazionale sovietica giocò otto sfide proprio con il Team Canada, vincitore della serie alla fine con una storica marcatura di Paul Henderson. C’erano pure le stelle della Nhl, allora banditi dal circuito ufficiale della federazione internazionale (la prima Olimpiade “open” fu quella del 1998 a Nagano).

Più recentemente, il disco ha provato a mettere insieme Nord e Sud Corea. Nel torneo di hockey femminile, alle Olimpiadi Invernali di Pyeongchang, fu creata una Nazionale formata dalle giocatrici dei due Stati storicamente nemici e separati da una blindatissima frontiera.

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L’effetto Trump sul ghiaccio potrebbe comunque essere doppio. E qui bisogna spostarci sul versante NHL. L’abbiamo sottolineato prima: il Mondiale che parte domani non lo giocheranno diversi campioni impegnati nei playoff. Per dire, nel Canada non ci sarà Connor McDavid, l’autore del famoso 3-2 di febbraio dell’orgoglio canadese, stella di Edmonton. Mentre sarà in campo Sydney Crosby visto che i suoi Pittsburgh Penguins sono stati eliminati. Nel tabellone playoff siamo arrivati praticamente ai quarti di finale e le squadre canadesi ancora in lizza sono tre (sulle sette ai blocchi di partenza): gli Oliers di Edmonton, i Maple Leafs di Toronto, i Jets di Winnipeg.

Il fatto è che negli ultimi tempi, le franchigie canadesi hanno perso colpi: restano primatisti di titoli, monopolizzarono praticamente tutto l’inizio della storia, ma è dal lontano 1993, vittoria dei Montreal Canadiens, che poi sono la squadra che ha vinto di più andando a segno ben 24 volte, che lo “scudetto” più importante dell’hockey resta sempre a sud. Chissà se l’effetto Trump provocherà pure questo ribaltone.

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