Antonia, Fabrizio e Luca sono gli eredi di Antonio, operaio che ha lavorato all’interno dell’Ilva di Taranto per quasi trent’anni, dal 1972 al 2001. Era un riparatore elettrico e frigorista, Antonio, addetto alla sostituzione dei portelloni delle caldaie, dei condensatori, dei compressori, e ha lavorato dal 1986 nella parte più inquinante dello stabilimento, occupandosi anche della pulizia e della manutenzione ordinaria degli utensili, utilizzando tute e guanti coibentati con l’amianto che, lacerandosi per l’usura, liberavano fibre tossiche.

Poi un giorno si è ammalato di un tumore ai polmoni, e gli eredi, oggi, aspettano un risarcimento economico per la sorte accaduta al marito e padre in forza di una sentenza del tribunale di Taranto emessa nel 2014. Non solo, però, i familiari non hanno ancora visto un euro, ma potrebbero non ricevere mai i soldi.

Nella stessa situazione si trovano in provincia di Taranto almeno 150 famiglie di operai morti a causa dell'esposizione all'amianto, ai fumi e alle polveri dopo aver lavorato per anni all'interno dell'ex Ilva di Taranto, e che ora potrebbero non vedersi riconosciuti i risarcimenti nonostante il tribunale civile di Milano, competente su queste vicende dopo il crac della società della famiglia Riva, ne abbia riconosciuto loro il diritto con somme che vanno da un minimo di 5mila fino a un massimo di 200mila euro. Il motivo è presto detto.

«A rischiare di non vedere più i soldi dei risarcimenti che spettano ai familiari degli operai che si sono ammalati in fabbrica sono ad oggi 150 famiglie, solo tra quelle che sono mie clienti», precisa l’avvocata Filomena D’Addario a Domani: «Nella realtà sono oltre duemila le richieste di ammissione al passivo del fallimento da parte delle famiglie di ex operai».

Spiega la legale: «Il tribunale fallimentare può decidere se ammettere o meno le domande dopo il parere del commissario di governo che presenta di solito opposizione. I legali hanno 30 giorni per presentare il ricorso e poi la procedura viene incardinata davanti al tribunale civile. Qui i legali di Ilva in amministrazione straordinaria arrivano con la proposta di trattare sui soldi, che prevede sempre la concessione di un quarto rispetto a quello richiesto dalle vittime».

E poi ancora: «Abbiamo assistito ad un atteggiamento ostruzionistico da parte di una struttura dello stato che ci ha fatto perdere molto tempo, ed è diventato umiliante dover spiegare questi meccanismi a così tante famiglie già provate dal dolore», l’avvocato D'Addario. «Hanno accettato di ridurre a un quarto le loro richieste e a distanza di anni non sanno che probabilmente non riceveranno nulla. Perché non sappiamo se i soldi ci siano, almeno per loro», conclude.

I tre eredi di un altro operaio morto vivono con una pensione di appena 900 euro e con la speranza di ottenere un risarcimento di circa 200mila euro. Ma anche per loro non è detto che i soldi ci siano, prima lo stato dovrà pagare sé stesso, cioè la struttura commissariale messa in piedi.

A metterlo nero su bianco sono gli stessi legali dell’Ilva in amministrazione straordinaria in un documento indirizzato al tribunale di Milano nell’ottobre scorso, di cui Domani è in possesso. «Considerato che non è stata ancora completata la cessione dei complessi aziendali del Gruppo Ilva e non è stato, pertanto, definito il prezzo di acquisto definitivo, né la relativa ripartizione a favore delle varie società concedenti, non è possibile formulare una previsione circa le percentuali di soddisfacimento dei creditori insinuati al passivo della procedura. Tale valutazione sarà il necessario punto di partenza al fine di verificare se sussistano le condizioni, posizione per posizione, per addivenire ad una soluzione transattiva del contenzioso», scrivono gli avvocati nella memoria con cui si sono opposti in un primo momento alla richiesta della famiglia dell’operaio Antonio.

Omissis 

Secondo la relazione trimestrale presentata qualche settimana fa al ministero delle Imprese e del Made in Italy dagli attuali commissari di Ilva in amministrazione straordinaria, Alessandro Danovi, Francesco di Ciommo, e Daniela Savi, non è chiaro quali siano i debiti della società dei Riva dichiarata fallita dal tribunale di Milano, ma, soprattutto, quali saranno le risorse di cui la stessa amministrazione straordinaria disporrà in futuro per pagare le migliaia di creditori.

Proprio nella parte della relazione dove dovrebbe essere indicata la situazione economica, finanziaria e patrimoniale e il relativo andamento al 31 dicembre del 2023, infatti, ci sono quattro fogli bianchi, e la dicitura omissis. A leggere le carte, si apprende che sono più di 17mila le domande avanzate dai creditori e ammessi dal giudice fallimentare.

I conti li ha fatti per prima la Gazzetta del Mezzogiorno, riportando ieri la notizia che ammonta a 2,8 miliardi il totale delle cifre che società fornitrici, lavoratori, vincitori di contenziosi, dovranno ricevere come risarcimento. Questo sulla carta, perché i creditori, per legge, vengono divisi in prededuzione, privilegiati, infine, chirografari.

Tra questi, hanno la priorità i crediti prededucibili, cioè quelli vantati dalle banche per un miliardo e mezzo di euro, gli stipendi dei commissari e le parcelle dei legali di Ilva in A.S, più in generale, i costi dell’intera struttura. Per dare l’idea: agli ex commissari dal gennaio 2015 al maggio 2019, Pietro Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba, spetta un compenso di poco superiore al milione di euro.

Anche se per il professor Laghi la liquidazione è sospesa, si apprende da un documento che è nella disponibilità del ministero di Adolfo Urso. Perché evidentemente l’ex top manager è tuttora sotto processo al tribunale di Potenza e, in attesa di chiarire la propria posizione insieme all’ex capo della procura di Taranto, Carlo Maria Capristo, proprio per alcune vicende corruttive che riguarderebbero la passata gestione dell’ex Ilva. Tant’è.

Maxiprocesso 

Intanto, proprio oggi nella “città dei due mari” in Corte D’Assise comincia l’appello del maxi processo ai vertici della fabbrica. Come si ricorderà, il giudizio si era concluso in primo grado il 31 maggio del 2021, e il procedimento era stato originato dal sequestro dell’area a caldo dell’ex area Ilva avvenuto il 26 luglio del 2012, perché, come scrisse allora nell’ordinanza la giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto, Patrizia Todisco: «Provocava malattie e morte anche nei bambini».

Il primo capitolo di questa storia giudiziaria si è chiuso con la condanna di alcuni dirigenti anche a vent’anni di carcere, accusati di «aver provocato una massima attività di sversamento nell’aria/ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale, vegetale, benzo(a)pirene, diossine e metalli pesanti, cagionando eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino al siderurgico, dal 1995 al 2013, anche dopo il provvedimento di sequestro dell’area a caldo», si legge nella sentenza di primo grado.

Oggi, a tre anni da quella sentenza, in aula ritorneranno una quarantina di imputati, coinvolti a vario titolo nel più grave disastro ambientale che l’Italia ricordi. Oltre a loro ci saranno a 1400 parti civili ammessi al giudizio, tra associazioni ambientaliste, singoli cittadini, cooperative di agricoltori, allevatori e pescatori, enti locali, organizzazioni sindacali. A Milano, invece, in una sorta di processo parallelo sono a rischio i risarcimenti per le famiglie degli operai che si sono ammalati in fabbrica.

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