Ho ricevuto una lettera da Erika, un ottimo e appassionato medico d’urgenza. Mi ha scritto che sta pensando di lasciare. Non ce la fa più, fisicamente ed emotivamente, a sopportare turni sempre più pesanti in Pronto soccorso e sulle ambulanze del 118. I turni le hanno tolto qualsiasi spazio per la ricerca, che ama, per il lavoro di formazione, cui si dedica con competenza, soprattutto per la sua famiglia.

Erika va ad aggiungersi ad Annina, a Giulia, a Marta, tutte amiche e tutte splendidi medici d’urgenza quarantenni che hanno lasciato negli ultimi mesi per prendere altre strade (palliativista, ecografista, medico di medicina generale) nel momento in cui avevano il massimo di professionalità da offrire al loro lavoro e ai loro pazienti.

Non si tratta di casi isolati, se è vero che 25 medici del Pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli minacciano di dimettersi in blocco a causa della fatica e del rischio lavorativo e che in Italia sono ormai quasi 100 i medici che abbandonano ogni mese i Pronto soccorso.  

Del rischio che corrono i cittadini ad affidarsi a una sistema di urgenza ospedaliera in grave affanno ho già scritto e non mi ripeterò. Dobbiamo invece chiederci nuovamente cosa si possa fare per rispondere a un problema che è allo stesso tempo grave e complesso. Complesso perché, se da un lato la fuga dai reparti di urgenza è la conseguenza di pesanti errori organizzativi e di programmazione, dall’altro è espressione di una cultura del lavoro (non solo medico) che va rapidamente mutando, e non in meglio.

La perdita di controllo sulla qualità del proprio lavoro (anche per professioni una volta prestigiose come quella del medico) ne è l’elemento centrale. Oggi tendono infatti a prevalere modelli lavorativi che non stimolano la partecipazione alle decisioni, ma piuttosto inducono e premiano l’acquiescenza a obiettivi, programmi e processi stabiliti altrove. Quando anche questi obiettivi non sono più riconoscibili, o creano condizioni di lavoro intollerabili, nei medici, privi di strumenti per modificare la situazione, scattano il malcontento, il burnout, il desiderio di fuga.

Saranno i politici e gli economisti a doversi occupare di queste grandi questioni, ma è intanto necessario che i tecnici, gli amministratori (e inevitabilmente ancora i politici) si occupino di dare in tempi brevissimi risposte concrete a quello che rischia di diventare un degrado irreversibile della nostra Sanità pubblica.

Una iniezione di flessibilità

Personalmente, se dovessi riassumere in una sola parola tutto il senso del lavoro da fare, sceglierei “flessibilità”. È una parola abusata, che assume un senso solo se viene sostenuta da proposte concrete. Dunque provo a fare qualche esempio.

1. L’Università deve provvedere con urgenza a rivedere (abolire?) la lista delle “equipollenze” tra specialità, che determina quali medici possono partecipare a quali concorsi. Oggi infatti, grazie anche a questa lista, le specializzazioni mediche sono irrigidite in una frammentazione datata e fortemente controproducente nel contesto attuale. Uno pneumologo può partecipare a un concorso per un posto in Pronto soccorso, ma un medico d’urgenza non può partecipare a un concorso per la pneumologia.

Un medico specializzato in medicina interna, con alle spalle molti anni di lavoro ospedaliero, non può coprire uno dei tantissimi posti vacanti nella medicina generale e fare il medico di famiglia se non dopo aver frequentato ulteriori tre anni di formazione regionale (!!). Chi decide di specializzarsi in medicina d’urgenza e di lavorare in Pronto soccorso ha pochissime possibilità di accedere a un concorso per una disciplina diversa o di trasferirsi in futuro presso un altro reparto.

Ha invece un’elevata  probabilità di non trovare vie d’uscita e di dovere convivere con un lavoro rischioso e con turni massacranti fino all’età della pensione. È anche, e forse soprattutto, per questo, che le iscrizioni alla specializzazione di medicina di emergenza e urgenza sono crollate.

Paradossalmente, una ragionevole possibilità di uscita potrebbe avvicinare, anziché allontanare, molti giovani medici al Pronto soccorso. Potrebbero infatti decidere di cogliere gli aspetti positivi di passare qualche anno (ma non tutta la vita) in  un reparto che rappresenta una grande palestra formativa per tutti i professionisti dell’ospedale.  

2. La mobilità tra reparti e ospedali (teoricamente possibile ma praticamente inesistente) deve essere favorita e incentivata. Bisogna prevedere la possibilità di spostamenti a termine, così da poter rinforzare reparti in crisi in attesa di nuove assunzioni. Si potrebbe anche ipotizzare l’obbligo per tutti i nuovi assunti in area medica di prestare i primi anni di servizio in Pronto soccorso. Le regioni Emilia-Romagna e Lazio ci stanno provando e si spera che non vengano bloccate dagli interessi di parte, dalla burocrazia del “non si può fare”, o dal solito Tar. In generale i meccanismi concorsuali devono essere fortemente snelliti. Non è possibile che siano necessari mesi per sostituire un medico che si assenta per gravidanza, per malattia o per trasferimento.

3. Quanto sopra sarebbe reso molto più facile, e il lavoro in Pronto soccorso (permanente o temporaneo) più appetibile, se la retribuzione economica fosse adeguata alla qualità e al peso dell’attività lavorativa, anziché basata che sulle cervellotiche valutazioni di qualità individuale o di raggiungimento degli obiettivi in voga negli ospedali pubblici.

Non ha senso in termini organizzativi, economici e direi anche etici, che un chirurgo che fa trapianti di cuore o un medico d’urgenza che lavora sette notti e tre weekend al mese riceva lo stesso stipendio di un dermatologo o di un endocrinologo (lo dico con tutto il dovuto rispetto) che lavorano solo in ambulatorio, fanno orari d’ufficio e possono integrare abbondantemente i loro guadagni con la libera professione. Il disagio lavorativo deve essere premiato come o più dei titoli professionali e dell’anzianità di servizio. I circa cento euro netti al mese concessi dal ministro Speranza ai medici di Pronto soccorso sono un segno di buona volontà, ma non indurranno neppure un solo medico a  lavorare in quel reparto, o a restarci se ha la possibilità di andarsene. Un’indennità di lavoro disagiato dovrebbe  essere almeno dieci volte superiore. Se può sembrare tanto, basta considerare che, per tappare i buchi dei Pronto soccorso, oggi gli ospedali pagano i medici di cooperativa mille euro per un singolo turno di servizio.

Incentivare la mobilità

Accettare il concetto di flessibilità, così come ho qui proposto, permetterebbe di immaginare risposte nuove a problemi che oggi appaiono irrisolvibili. Ci sono ospedali  (ormai anche nelle grandi città) dove i concorsi per il Pronto soccorso vanno regolarmente deserti.

Con un po’ di pensiero laterale (sostenuto da flessibilità burocratica e adeguati incentivi economici) si potrebbe per esempio proporre a medici esperti di trasferirsi per un paio di anni dagli ospedali dove le cose funzionano meglio a quelli più in crisi, con l’obiettivo di elevare la qualità e l’attrattiva di questi reparti. Il ritorno alla sede di origine dovrebbe ovviamente essere garantito.

O ancora, si potrebbero ridurre gli accessi al Pronto soccorso dedicando medici esperti a un servizio di risposta domiciliare in alternativa all’invio di un’ambulanza (lo fanno in Inghilterra e qualcosa inizia a muoversi anche in Lombardia). Infine, la medicina territoriale potrebbe essere resuscitata dal suo torpore creando situazioni in cui medici ospedalieri, specialisti ambulatoriali e medici di medicina generale costituiscano insieme (non perché lavorano sotto lo stesso tetto, ma perché collaborano fianco a fianco) la spina dorsale delle nuove case della salute e degli ospedali di comunità.

Non si tratta di una rivoluzione, ma di proposte assolutamente praticabili se solo qualcuno decidesse che è giunto il momento di inserire flessibilità e organizzazione del lavoro in una sanità pubblica che ne ha un urgente bisogno.

© Riproduzione riservata