Un paese stranito ha cominciato a chiedersi se il governo e la giustizia australiana avessero davvero un’anima. Come è possibile rinchiudere Novak Djokovic, icona della Serbia, nel primo giorno del Natale ortodosso in una cella in attesa del giudizio di un giudice? Era proprio questo il titolo del quotidiano Alò! “Malvagi, avete un’anima?”.

Per comprendere quello che ruota attorno al “caso Djokovic” non bisogna fermarsi alle carte, alle norme che regolano gli ingressi in Australia durante la pandemia o alle esenzioni vaccinali. Come spesso accade, le carte raccontano solo una fredda storia che resta in superficie e che fa da sfondo alle tenzoni dei legulei.

Le carte non fanno vedere le anime nere, gli spettri, la voglia di rivincita, le identità, il sangue, le bombe. Le carte ingannano, nascondono la vita dietro la forma dei tecnicismi del diritto. Ma il diritto non può contenere la vita. Nella testa di Novak Djokovic tornano sempre i «maledetti» bombardamenti della Nato e l’«ingiustizia» patita dai serbi. 

Strumento divino

Umiliati e reietti, con la leadership politica alla sbarra accusata di genocidio per la mattanza di Srebrenica. La condanna nei confronti di Ratko Mladic, confermata anche a giugno dello scorso anno dal tribunale dell’Aia. Slobodan Milošević trovato morto nel carcere dell’Aia nel 2006. Milan Babić, ex leader dei serbi di Krajina, morto suicida nella cella dove scontava una condanna patteggiata a 13 anni. Chi poteva riscattare l’orgoglio dei serbi?

Solo un intervento divino avrebbe potuto restituirgli l’identità dopo i bombardamenti occidentali e la condanna dell’opinione pubblica internazionale. E Djokovic «è stato inviato da Dio. Fa per il nostro paese molto più di qualsiasi politico». Così, nel 2011, dichiarava allo Spiegel Jelena Gencic che aveva scoperto l’allora giovane tennista.

È stata lei a seguire gli allenamenti di Djokovic, anche quando le bombe cadevano copiose su Belgrado. I due allora sceglievano dove allenarsi sulla base delle previsioni dei bombardamenti. Novak già sapeva che un giorno sarebbe diventato il migliore.

Del resto, cosa avrebbe potuto fermarlo? «Ho formato la mia personalità dopo aver temuto per la mia vita e per quella dei miei cari, è difficile che abbia paura di qualcosa». Anche dalle bombe dipende l’atteggiamento perenne di sfida al mondo.

Nessuno può insegnare come si vive a un serbo, abituato a resistere anche perché ha una fede. «Prima di essere un atleta, sono un cristiano ortodosso» ha sostenuto Djokovic. La chiesa ortodossa serba è stata l’anima della resistenza durante il dominio dell’occupazione ottomana.

I monasteri di cui è pieno il Kosovo non erano solo luoghi di preghiera ma casematte della resistenza. Gli angeli raffigurati negli affreschi sono armati e belligeranti perché l’anima serba non si sarebbe mai arresa e un giorno sarebbe rinata per riprendere il suo posto nel mondo.

Custodire un’identità

Nel 2008 però la nuova umiliazione: l’indipendenza del Kosovo con il riconoscimento dei paesi occidentali e i serbi ancora una volta da soli, contro il mondo. Sono sempre presenti nell’animo del popolo serbo gli istinti neri, le inquietudini mai sopite, la percezione dell’accerchiamento.

La chiesa ortodossa però è sempre stata presente, anche nelle difficoltà più incredibili. Ha resistito all’avanzata ottomana, si è mimetizzata e difesa nei decenni del socialismo jugoslavo per custodire l’identità del popolo che ora, aperto il vaso di pandora con il collasso della guerra, continua a riaffiorare.

Sono gli stranieri e gli infedeli a perseguitare il popolo serbo. Gli australiani e le multinazionali occidentali. Non deve allora sorprendere il post su Instagram che il patriarca ortodosso serbo Porfirije ha voluto dedicare al tennista: «Le sofferenze che si attraversano a Natale passeranno; domani rimarrà soltanto un’impercettibile ombra. Dio è grande e sai bene chi sei, grande con il suono della campana di Nemanjic. Milioni di serbi ortodossi pregano per te, come noi. Possano il calore e l’amore della grotta di Betlemme riscaldare e rafforzare il tuo cuore e la tua anima».  

Se nel mondo, soprattutto in occidente, si diffonde sempre di più il “credere senza appartenere” quello serbo è uno dei classici esempi contrari in cui si può “appartenere senza credere” secondo la classica formulazione coniata dalla sociologa inglese Grace Davie.

La chiesa ortodossa svolge così anche il ruolo di “religione vicaria” rappresentando l’identità nazionale davanti alle tempeste del mondo. Novak Djokovic, in questo contesto, non è che uno strumento nelle mani del Signore che combatte per l’orgoglio e i diritti dei serbi.

Nel 2011 è stato infatti insignito con l’Ordine di San Sava di primo grado, la più alta onorificenza della chiesa ortodossa serba, principalmente per aver contribuito con delle donazioni al rinnovamento di alcuni edifici religiosi nel suo paese natale. «Questo è il titolo più importante della mia carriera, perché prima di essere un atleta, sono un cristiano ortodosso». Tutto torna.

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