Spicca per la rilevanza attribuita alle norme della tavola la regola scritta da Benedetto da Norcia (480 circa-547) nel VI secolo per i benedettini, famiglia religiosa caratterizzata dal celebre motto ora et labora, prega e lavora. Nel fluire di una vita scandita dai rigidi ritmi dell’orazione e delle opere, possiamo immaginare quanto fosse importante vivere uno stacco, un momento di scambio e magari di leggerezza assieme ai confratelli.

Quel momento lo si cercava a mensa, non senza difficoltà. Nella Compagnia di Gesù – ordine religioso istituito per iniziativa di Ignazio di Loyola (1491 circa-1556) nel 1540 – non vi era invece una regola unica a parlare dei pasti, ma una dettagliata serie indicazioni elaborate nel tempo a forza di lettere, trattati e istruzioni.

Gerarchia

Prima di tutto, dobbiamo considerare che la mensa non era luogo di uguaglianza. Lo stabilivano le direttive sull’assegnazione dei posti, l’abitudine di riservare collocazioni privilegiate ai superiori e la previsione di pietanze e bevande diversificate a seconda delle attività da svolgere o dai ruoli ricoperti in case, monasteri e abbazie.

Per esempio, tra i benedettini gli incaricati del servizio in refettorio potevano concedersi un bicchiere di vino prima del pasto, in cucina, lontano dagli occhi potenzialmente invidiosi di chi abitualmente mangiava con loro. L’abate aveva una tavola tutta per sé, alla quale dovevano sempre essere ammessi gli ospiti e i pellegrini.

Qualora di ospiti o pellegrini non ce ne fossero, l’abate stesso poteva assegnare ad alcuni prescelti l’onore di condividere il cibo con lui, facendo attenzione a che uno o due monaci anziani si mescolassero alla comunità dei giovani, allo scopo dichiarato di mantenere la disciplina.

Tra i gesuiti, in linea di principio tutti dovevano essere serviti allo stesso modo, in qualità e in quantità, con delle eccezioni però: la ragione principale di una deroga era quella sanitaria. A fronte di indisposizioni e debolezze costitutive si poteva essere più indulgenti. Qualcuno però approfittava delle pieghe dei principi disciplinari, sollevando infondate eccezioni a fronte di un solo presunto bisogno della dieta speciale, alimentato magari non da una reale indisposizione, quanto piuttosto dal timore o dalla finzione.

Evidentemente la figura dell’ipocondriaco, o peggio del falso ammalato, non era così estranea alla mensa gesuitica. Il secondo ordine di eccezioni si collocava in piena sintonia con le conoscenze mediche del tempo, per le quali il lavoro intellettuale era ragione di notevole stanchezza e, di conseguenza, richiedeva attenzioni particolari. Per questo motivo i predicatori, i lettori, gli oratori, i difensori di conclusioni pubbliche o accademiche erano tutti meritevoli di “carezze della tavola”.

I documenti raccontano una lunga serie di strappi alla regola, dimostrando come il principio secondo il quale il momento del pasto dovesse funzionare da luogo e momento di uguaglianza non veniva applicato con rigore.

Tutt’altro, la possibilità di deviare dalla legge comune era causa di ripetute rivendicazioni e lamentele, le quali riguardavano talvolta anche i privilegi dei più alti in grado, cui venivano riservati non solo i posti migliori, ma in certe occasioni pure portate speciali. Siccome poi in ottica anti-spreco i coperti erano contati, se un superiore portava con sé un ospite inatteso – cosa che a leggere le fonti accadeva eccome – qualcuno doveva addirittura rinunciare al pranzo.        

Comportamento

Scritto delle differenze di trattamento a vantaggio dei più scaltri e dei più illustri (oltre che dei bisognosi), rimane da ragionare su quale fosse il modo di stare in refettorio. Una regola piuttosto comune era quella del silenzio, il tempo andava santamente riservato all’ascolto di letture sacre e storie edificanti, per la cui scelta si preparavano ragionati calendari e strettissime indicazioni.

La regola benedettina sul punto era piuttosto precisa, imponendo un profondo silenzio (summum silentium, un superlativo assoluto) tale da dover impedire la percezione di bisbigli e voci, all’infuori di quella del lettore. Erano banditi i commenti, eccezione fatta per quelli del Superiore, con la “esse” maiuscola. Gli elenchi delle letture consentite inducono a sottolineare la differente sensibilità tra allora e ora: a chi oggi non stringerebbe lo stomaco sentirsi declamare nel dettaglio storie di martiri, o, al contrario, di sventurate vittime che per avere abbandonato la retta via del cristianesimo finiscono per essere puniti dal colpo di un fulmine, la caduta di un muro, l’insorgere di una malattia incurabile, la devastazione di una pestilenza?

Ai monaci era consentito passarsi il necessario per mangiare e bere, ma le esigenze andavano manifestate a gesti. Questa indicazione nel corso del tempo diede adito a interpretazioni assai creative, tanto che le carte d’archivio riportano lagnanze capaci di indurre al sorriso, allora come ora. In molte abbazie, infatti, i sistemi per dirsi “passami il pane” si erano talmente evoluti in complicati sistemi di comunicazione non verbale che un osservatore capitato per caso in una mensa benedettina avrebbe facilmente potuto scambiarla per un raduno di folli, o di teatranti.

Così numerosi erano i modi escogitati per parlare senza voce che era tutto un dimenarsi, un toccarsi capelli, nasi e occhi, un muovere gambe e braccia per raccontare ai commensali storie anche complicate, scambiarsi opinioni, persino dare spazio a moti di spirito, frizzi e lazzi. Insomma, l’obbligo del silenzio perse di significato, sconfitto dall’inventiva e dal desiderio di socialità, capaci di costruire una semantica e una scenografia conviviale del tutto estranee allo spirito della norma.

La regola del silenzio era meno stringente per i gesuiti, sia pure anche per loro valesse l’obbligo di ascoltare letture scelte ed edificanti. Lo spagnolo Alonso Rodríguez (1533-1617), preoccupato della condotta non troppo austera di certi confratelli, si preoccupò di dedicare una parte rilevante della propria autobiografia alle riflessioni sul comportamento a tavola, nei suoi pensieri evidentemente utili a fornire una sorta di manuale di buona condotta.

Il suo approccio al cibo guardava al pasto come a un’opportunità di confermare il voto di povertà, dimostrare l’umiltà, immergersi nella preghiera. La necessità quotidiana del nutrirsi poteva e doveva servire all’esercizio della virtù, grazie a comportamenti concreti e facilmente ripetibili da tenersi alla mensa condivisa: non cominciare prima degli altri e non finire per ultimi, non dimostrare troppo apprezzamento per il cibo (scegliendo per esempio i pezzi di pane meno appetitosi), non raccogliere gli avanzi con il pane e non leccarsi le dita.

Quanto al linguaggio del corpo: concentrarsi in preghiera anche durante il pasto, rimanendo in silenzio a meno di non dovere chiedere qualcosa (“passami il pane” lo si poteva dire senza inventare gesti da gara di briscola); non abbandonarsi a risate; sedersi in maniera composta, evitando di incrociare le gambe e di tenere i gomiti fuori dalla tavola.    

Luogo di incontro, di buoni appetiti e chiacchiere di varia natura, questo furono dunque le mense religiose di secoli fa, solo in parte distanti dal nostro modo di vivere il pasto in comune. In fondo, chi di noi non ha mai cercato di parlare senza farsi sentire, di accaparrarsi la porzione più appetitosa, di sedersi accanto alle o ai commensali in apparenza meglio disposti al dialogo e alla risata?

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