Nel 1540, guidati dal carismatico Ignazio di Loyola, dieci uomini fondarono la Compagnia di Gesù, l’ordine religioso i cui membri (gesuiti) grazie alle missioni, le scuole, i contributi a svariate scienze e arti avrebbero segnato e continuano a segnare la storia del cristianesimo, ma anche quella della cultura alimentare. Ignazio morì il 31 luglio 1556, aveva presumibilmente sessantacinque anni: una vita piuttosto lunga, alla luce dell’epoca in cui visse, dei rischi che corse e dello stato di salute con il quale convisse, segnato in particolare da una perdurante debolezza di stomaco. Era questo un problema che il futuro santo (canonizzato nel 1622) si portava dietro fin dal periodo di eccezionale privazione e austerità sperimentato nel corso della sua conversione da uomo d’armi a soldato di Cristo.

Troppe privazioni

Vivendo un periodo di tormento spirituale nella città di Manresa (1522-1523), Ignazio (che all’epoca portava ancora il proprio nome basco, Iñigo) credette opportuno seguire l’esempio di un santo del quale aveva letto in uno dei suoi amati libri: per capire quale strada seguire nella vita bisognava smettere di mangiare, Dio avrebbe apprezzato il sacrificio e, in qualche modo, si sarebbe manifestato.

Nonostante la fervente applicazione del penitente, la cosa non funzionò. Dopo otto giorni di digiuno Ignazio stava seriamente rischiando di lasciarci le penne e il suo confessore gli ordinò di mangiare, lui obbedì a malincuore ma continuò ad astenersi dalla carne.

Questo atteggiamento proseguì fino a quando, un mattino, Ignazio ebbe la visione di un piatto di carne pronto per essere consumato e sperimentò uno strano sdoppiamento: i suoi occhi corporali non trasmettevano alcun desiderio di mangiarne, ma un “assenso della volontà” lo invitava a farlo liberamente.

Verificato anche grazie a un colloquio con il confessore che non si trattava di una tentazione, Ignazio si sentì liberato dai vincoli dell’astinenza e mangiò con più serenità. Il tempo della privazione estrema, però, non era trascorso senza conseguenze e Loyola uscì dall’esperienza con due lasciti destinati ad accompagnarlo per tutto il tempo che ancora gli era dato da vivere.

Il primo era un persistente dolore di stomaco, ciclicamente assai  aggressivo. Il secondo consisteva invece nella convinzione che le regole del digiuno dovevano essere sì osservate, ma solo nella misura in cui consentivano di preservare l’equilibrio fisico e quello mentale: un moribondo privo di forze non avrebbe certo potuto attivarsi “per la maggior gloria di Dio” (Ad Maiorem Dei Gloriam, recita il motto dei gesuiti).

Sulla propria pelle

Forte dell’insegnamento appreso dopo essersi pericolosamente avvicinato al limite dell’inedia con i patimenti di Manresa, Ignazio rimase fedele all’idea che un servitore di Cristo non potesse essere consumato dalla fame e dalla sete. La sua ricca corrispondenza lo testimonia di frequente.
Propenso a scrivere pure dei propri errori, il padre fondatore non esitava a consigliare, talvolta anche a ordinare ai propri confratelli di moderare le penitenze legate al digiuno e all’astinenza. A chi esagerava come aveva fatto lui anni prima, Ignazio ricordava che il buon gesuita doveva essere in buona forma per adempiere ai suoi principali obblighi: insegnare e predicare.

Del resto, la cultura canonica del tempo prevedeva che proprio insegnanti e predicatori potessero essere dispensati dal digiuno per preservare le forze necessarie a servire il Signore nel modo più efficace possibile. 

Ai missionari chiamati a percorrere impegnative e tortuose strade in Asia, in Africa, in Europa e nelle Americhe Ignazio e i suoi successori al vertice della Compagnia di Gesù ricordavano instancabilmente che la salute del corpo era necessaria a quella dell’anima e che la morte di stenti non avrebbe portato alcun frutto per la conversione dei pagani o dei protestanti. Qualche gesuita si lasciò convincere fin troppo facilmente, tanto che su alcuni cadde l’accusa di eccessivo lassismo e golosità: la difficoltà del giusto mezzo.

I menù del XVI secolo

Quanto a sé, Ignazio rimase sempre un commensale, sobrio e moderato, ma evitò di aggravare la propria già problematica salute e si fidò dei medici. Le ricette scritte per lui annotano anche le proibizioni e attraverso questi documenti riusciamo a figurarci una panoramica forse non del tutto esaustiva ma neppure troppo povera della mensa dell’epoca. 

Tra gli alimenti consigliati annotiamo minestra di verdura (lattuga o borragine) e verdure crude condite con olio: cicoria, bietola, portulaca, acetosa, cocuzza (una varietà di zucchina), cetrioli e indivia. Ammessi erano poi il brodo di castrato, le lenticchie, il finocchio lesso, il pesce cotto e tra i condimenti il farro, il pane stufato o grattato, l’anice e il cumino. Via libera anche per il pesce cotto, ma non quello troppo grasso (tonno), senza squame (anguilla) o di palude (tinca).

Qualche problema lo poneva l’acqua, ritenuta potenzialmente dannosa sia per la sua natura fredda e umida, sia perché spesso guastata da scarichi e liquami: andava assunta sotto controllo medico. Lo stessa valeva per il vino.

La carne doveva essere poca e selezionata: pollo e gallina, pernice, tortora, colomba, capretto arrosto, vitella in estate e castrato in inverno. Le liste dei divieti comprendevano tra gli altri: carne di maiale, rape, legumi (tranne le lenticchie), noci, nocciole, formaggio, latte, senape, porro, cipolla, vino novello, torbido o forte.  

Festa

La sobrietà non è di casa nel giorno della festa e il giorno in cui si celebra la santità di Ignazio – il 31 luglio, appunto – le regole delle case e delle scuole gesuitiche ancora tre secoli dopo la sua morte prevedevano che si riservasse ai commensali un “trattamento di prima classe”, lo stesso previsto per Pasqua e Natale.

Per esempio, le consuetudini vigenti nella Roma del 1845 solleticavano di certo l’acquolina dei gesuiti, prevedendo un pranzo fatto di quattro portate, anticipato da una minestra (con questo nome si identificavano anche i nostri pasta e risotto).

Di seguito, spazio a carne in abbondanza: un lesso (vitello o pollo), un fritto (di norma cervella), un arrosto (uccelli o polli) o delle braciole, e un piatto di salumi e formaggi. Chiuse le quattro portate, che in realtà sono cinque, non mancava la frutta, porzione doppia rispetto alla norma. Il tutto accompagnato da “una bottiglia di vino particolare”. Il tempo del pasto era aumentato dalla abituale ora e mezza all’ora e tre quarti. La lezione di non eccedere nella rinuncia era stata appresa.

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