Il 7 novembre, quando la Cgil ha annunciato lo sciopero generale contro la legge di bilancio, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato su X un post di una sola riga: «In quale giorno della settimana cadrà il 12 dicembre?».

La frase era costruita per essere ricordata, più che discussa. Non era ancora scesa la polemica e Meloni l’ha poi ripetuta a Bari, dove si trovava per appoggiare la candidatura di Luigi Lobuono: «Abbiamo messo in manovra una misura sui rinnovi contrattuali. La voleva la Cgil...e la Cgil cosa fa? Sciopero generale di venerdì. Perché non sia mai che la rivoluzione la facciamo di martedì, a dimostrazione che i diritti dei lavoratori non sono prioritari per alcuni». Due uscite ravvicinate, identico messaggio.

L’obiettivo è sempre lo stesso: non entrare nel merito delle richieste sindacali, ma ridefinire lo sciopero come un’occasione di “weekend lungo”.

La retorica della presidente del Consiglio (ripetuta anche dal vicepremier Matteo Salvini e molti nella maggioranza) si appoggia sulla diffusa percezione che il fine settimana sia tempo di riposo per la maggioranza dei lavoratori. Peccato che i dati dicano il contrario.

Un po’ di numeri

Secondo Eurostat il 30,9 per cento dei lavoratori dipendenti in Italia lavora abitualmente il sabato o la domenica. Quasi uno su tre. È la seconda percentuale più alta d’Europa dopo la Grecia (32,3 per cento). La media Ue, tanto per avere le proporzioni, è intorno al 19 per cento. Significa che in Italia quasi un lavoratore dipendente su tre considera il weekend parte ordinaria della settimana lavorativa. Non sono turni straordinari, non sono sostituzioni occasionali: è la routine.

Nei lavoratori autonomi, la quota sale ancora: tra il 55 per cento e il 60 per cento lavora regolarmente nel fine settimana (Eurostat, dati su self-employed con e senza dipendenti). E questa percentuale riguarda proprio quella platea che il governo definisce spesso «l’Italia che rischia di suo»: negozianti, piccoli ristoratori, baristi, artigiani, titolari di attività familiari.

I settori coinvolti sono quelli che tengono aperto il paese quando gli altri riposano. Turismo e ristorazione: secondo Unioncamere nel 2024 il 69,3 per cento dei dipendenti del settore ha lavorato almeno due weekend al mese. Sanità: il 43,1 per cento del personale ospedaliero ha turni festivi (ministero Salute, rapporto Organici 2024).

Commercio: il 30,6 per cento dei dipendenti lavora almeno una domenica su due, percentuale cresciuta dopo la liberalizzazione degli orari (Istat, Conto annuale imprese). Logistica e trasporti: turni trattenuti da picchi 24/7 dovuti all’e-commerce, con incrementi del 18 per cento dei carichi weekend nelle piattaforme del Nord Italia (Osservatorio Contract Logistics, Politecnico Milano 2024).

Per camerieri, cuochi, commesse, infermieri, oss, operatori della logistica, autisti di linea, addetti alle pulizie nelle grandi strutture e lavoratori della cura domiciliare, il sabato e la domenica non sono giorni liberi. Scioperare di venerdì quindi non costruisce un “ponte”. Significa perdere una giornata di retribuzione, con in più la certezza di lavorare nei due giorni successivi. E qui si incrocia un altro numero centrale.

Oltre le 49 ore settimanali

L’Italia è tra i paesi europei con la quota più alta di lavoratori che superano le 49 ore settimanali: 6,6 per cento nel 2024, contro una media Ue del 4,4 per cento. Eppure, secondo Ocse Employment Outlook 2025, i salari reali italiani sono ancora circa il 7 per cento sotto i livelli del 2021. Dal 2008, il potere d’acquisto complessivo è diminuito di 8,7 per cento (Ilo Global Wage Report 2025). È una caratteristica strutturale: si lavora di più, si guadagna meno.

La questione sanitaria aggiunge un ulteriore livello. L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Eu-Osha) documenta che il lavoro a turni non standard (sera, notte, festivi) aumenta in modo significativo stress, disturbi del sonno, rischio cardiovascolare e burnout.

Nel suo rapporto 2024 Fnopi spiega che le strutture sanitarie italiane registrano tassi di abbandono anticipato delle professioni infermieristiche al 14 per cento nei reparti a turnazione intensiva. Nella ristorazione, uno studio Inail del 2023 ha rilevato una crescita del 28 per cento degli infortuni da affaticamento nei turni serali e weekend. La fatica non è retorica: è misurata dai numeri.

Il 12 dicembre, la Cgil sciopererà per aumenti salariali, rinnovo dei contratti nazionali, stabilizzazioni nella sanità, riduzione della precarietà e investimenti nel pubblico. Il governo ha risposto suggerendo che lo sciopero equivarrebbe a prendersi un giorno di ferie. Ma chi sciopera non viene pagato: la perdita giornaliera media per un lavoratore del commercio di IV livello è di circa 68 euro netti; per un infermiere del comparto sanitario, tra 82 e 104 euro (calcoli su tabelle retributive contrattuali 2024).

Così l’ironia sul calendario sposta il dibattito dal merito al giudizio morale. È una tecnica retorica precisa: se si ride dell’atto, ci si evita di rispondere al contenuto. Ed è esattamente qui che la narrazione politica si è spostata. Non sulla domanda: «Quanto si guadagna oggi lavorando in Italia?». Ma su: «Che giorno faranno sciopero?».

Peccato che i numeri, invece, sono chiari. In Italia il weekend è lavoro. E quel lavoro è sottopagato, intermittente, estenuante. Quindi il 12 dicembre, chi sciopera non allunga niente. Rinuncia a salario, e torna al turno il giorno dopo. Tutto il resto è solo una battuta e c’è da scommettere che i lavoratori non abbiano sorriso.

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