Poveri ma belli. I tempi del calcio italiano sono quelli che sono e allora per farseli piacere bisogna fabbricare una robusta bolla narrativa e chiudersi lì dentro a doppia mandata. Così succede in questa estate che porta verso il campionato di Serie A più anomalo della storia, perfettamente in linea con l’umore di un paese privo di bussola.

La stagione comincia a Ferragosto, le società sono impegnate in una campagna trasferimenti dal ritmo febbrile come nel tempo che precedeva il Covid e il racconto che si fa di tutto ciò assume toni da fanfara. Quasi fossimo ancora quelli del calcio ricco e capace di dominare il mondo. E possiamo anche dire che va tutto bene, ma a patto di dare a questa situazione il nome suo.

Dunque evitare di spacciarla per “nuovo inizio”, o “fase di rilancio”, men che meno per “ripartenza”. Nossignori, usiamo la formula corretta: decrescita felice. Quel preciso punto in cui il declino smette di suscitare angoscia perché oltrepassa la soglia dell’accettazione e trova nel piccolo cabotaggio una nuova comfort zone. E una volta sgravati da responsabilità troppo grandi si può pure tornare a sorridere e provare letizia. Specie sapendo che se si precipita dall’attico non si potrà tornare a raccontarla e invece cadendo giù dal muretto magari ci si sbuccia un ginocchio e nulla più. Ciò che conta è alimentare la rappresentazione costruita nella bolla. Evitando di chiedersi come le cose siano viste da fuori.

Campionato di passaggio

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Già, ma come ci vedono da fuori? Ci vedono esattamente per quello che siamo diventati: un campionato di transito, dove i grandi calciatori stranieri nel pieno della carriera non vengono più (perché inavvicinabili in termini di prezzo, e perché preferiscono tornei più competitivi come la Premier inglese e la Liga spagnola o più credibili e meglio organizzati come la Bundesliga tedesca), quelli forti in organico ai nostri club migrano alla prima occasione verso i principali club europei, e i rari giovani emergenti dai nostri vivai prendono a migrare verso campionati nazionali tuttora considerati di fascia inferiore come la Ligue 1 francese o addirittura l’Eredivisie olandese.

Nonostante ciò la Serie A rimane agganciata al circolo delle Big 5 fra le leghe calcistiche europee. Per il momento succede soltanto perché abbiamo un passato che, come le nostre città d’arte, ci permette di apparecchiare il camouflage sulle miserie del presente. E perché il movimento è radicato dentro un sistema-paese che ancora, nonostante se stesso, resiste nel G7. Ma andando appena oltre la superficie si scopre la realtà delle cose: quella di un movimento calcistico che oltre a continuare il declino non invia segni di mutamento virtuoso, e anzi peggiora i vizi che lo hanno portato a perdere competitività internazionale, sia sui campi da gioco che in campo economico-finanziario.

I riflessi di tutto ciò sono leggibili attraverso lo sviluppo di questa finestra estiva del calciomercato. Che ha visto le società del nostro massimo campionato continuare a operare principalmente sul mercato estero, secondo criteri operativi molto facili da sintetizzare. Da una parte si pongono le società medio-piccole, che provano a scommettere su calciatori provenienti anche da campionati periferici, con l’effetto quasi sistematico di ampliare la lista del bidonificio italiano.

Dall’altra parte si muovono le società di prima fascia, che ramazzano gli esuberi e gli svincolati dei principali club europei ma al tempo stesso non ci pensano su un attimo se si tratta di cedere i calciatori di maggior pregio per rimettere a posto i conti. Sicché va a finire che le operazioni più rilevanti, quelle che hanno acceso le fantasie dei tifosi e i titoli delle testate sportive, riguardano calciatori messi da parte dai grandi club europei. 

Divock Origi è giunto al Milan da svincolato del Liverpool. Georgino Winaldun è arrivato in prestito alla Roma da Paris Saint Germain. Romelu Lukaku è tornato all’Inter dopo una sola stagione d’insuccesso al Chelsea e a patto di ridursi drasticamente il salario. E la Juventus, di grandi svincolati, ne ha presi addirittura due: Paul Pogba dal Manchester United e Ángel Di Maria dal Paris Saint Germain. Il primo è già infortunato ma ha deciso di non operarsi per non compromettere la partecipazione ai mondiali che si svolgeranno in Qatar a partire dal prossimo novembre, il secondo ha detto esplicitamente che è venuto in Italia a raccattare l’ultimo ingaggio importante prima di tornare in Argentina per chiudere la carriera e glissa elegantemente davanti alle domande sull’eventualità di una seconda stagione bianconera.

E il bello è che proprio il pre-pensionato Di Maria potrebbe essere il miglior acquisto stagionale della Juventus, che intanto prova a portare a casa altri due esuberi di grandi club europei: l’olandese Memphis Depay dal Barcellona e l’argentino Leandro Paredes dal Paris Saint Germain. E a proposito del club parigino controllato dal fondo sovrano qatariota, verrebbe da dire che se iscrivesse in Serie A una squadra composta dalle sue seconde e terze scelte rischierebbe di vincere lo scudetto.

Lo shock d’inverno 

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Eravamo una patria di grandi difensori. E invero i nostri club continuano a realizzare grosse cifre con la cessione all’estero di calciatori che giocano nel reparto arretrato. Peccato che non siano di scuola italiana, ma tutti stranieri: Kalidou Koulibaly dal Napoli al Chelsea, Mathijs De Ligt dalla Juventus al Bayern Monaco, e intanto l’Inter prova a non cedere Milan Skriniar all’onnipresente Paris Saint Germain.

Probabile che il solo guizzo di grandezza di un nostro club sia l’acquisizione da parte del Milan del talento belga Charles De Kaetelere. Che però è giunto in Italia perché non cercato dai grandi club europei. Lo voleva in Premier League il Newcastle United della nuova proprietà araba, ma a quel punto il ragazzo ha preferito l’offerta di una società come quella rossonera che vanta ben altro blasone e gli assicura la possibilità di giocare la Champions League.

E proprio sul terreno delle competizioni internazionali per club continuerà a misurarsi la distanza fra il nostro calcio e quello del resto d’Europa. Pochi mesi fa è stata celebrata come un trionfo la vittoria della Roma nella terza (e appena inaugurata) competizione europea, la Conference League. E pensare che fino a soltanto la stagione precedente i nostri club schifavano la seconda (l’Europa League), che infatti non hanno mai vinto. Altro indizio di decrescita felice, e magari sarà anche un modo meno frustrante per avviare il lungo processo di ricostruzione. Che continua a non affrontare in modo deciso la drammatica situazione economica dell’intero movimento.

Nelle scorse settimane il presidente della Figc, Gabriele Gravina, ha presentato un prospetto allarmante della situazione in essere e dei suoi possibili sviluppi. Il dato più immediato parla di un sistema che perde un milione di euro al giorno. Come se ne esce?

Non certamente grazie ai risultati della nazionale azzurra guidata da Roberto Mancini, che un anno fa di questi tempi era portabandiera del rilancio possibile dopo la conquista degli Europei e adesso è invece è l’emblema della decadenza di un sistema intero. Nell’anno intercorso si è verificata la seconda eliminazione consecutiva dalla fase finale dei Mondiali. Che però stavolta colpisce molto più duro e deprime molto più a fondo. Perché la prima volta poteva essere vista come un’eccezione e invece dopo la seconda si fa largo il timore che stia diventando regola.

E perché almeno l’altra volta, in occasione di Russia 2018, il mondiale era d’estate e allora si poteva far finta di nulla andandosene in vacanza o spegnendo il televisore. Stavolta no: Qatar 2022 cade in pieno inverno e proprio non si potrà ignorarne lo svolgimento. Anzi, toccherà pure mettere in pausa il campionato per due mesi perché così stabiliscono i regolamenti e perché comunque molti calciatori stranieri dei nostri club, in Qatar, dovranno andarci.

Dunque toccherà anche la beffa: costretti a fermarsi e a guardare, come fosse la Cura Ludovico di Arancia Meccanica. E in quei giorni sarà davvero arduo alimentare la felicità della nostra decrescita pallonara.

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