È quasi sotto casa e gli dicono che a terra c'è uno “sparato”. Allunga il passo, per un momento pensa che quella sarà la sua prima cronaca di un delitto di mafia, lui che da neanche un mese ha messo piede in una redazione,  è un “biondino”, così chiamano a Palermo tutti i ragazzi che vogliono fare i giornalisti ma che non hanno ancora una scrivania e uno straccio di contratto.

Segue la scia delle luci, i lampeggianti delle auto della polizia che schiariscono la strada buia, tira fuori il taccuino, vede il lenzuolo bianco che copre il cadavere. Un uomo gli viene incontro lentamente, lo conosce bene, è il capo della squadra mobile Boris Giuliano. Gli si ferma davanti, lo afferra per un braccio, lo spinge lontano. Giulio non capisce. Proprio non capisce. Il poliziotto con quel paio di baffoni gli stringe il braccio ancora più forte, poi è un soffio di voce che gli cambia la vita: «È tuo padre».

Giulio si guarda intorno, cerca accanto al marciapiedi una vecchia “Giulia” e non la trova, qualche secondo dopo la scorge infilata nella traversa. I suoi occhi tornano sul lenzuolo bianco e non si muove più. Sono le 21,15 del 26 gennaio 1979, comincia la grande mattanza di Palermo. Comincia con Mario Francese, uno di noi, un giornalista, il primo ad avere capito chi fosse davvero Totò Riina e quale maledizione avrebbero portato i suoi Corleonesi.

Da padre giornalista a figlio giornalista

«Non ho avuto il coraggio di sollevare quel lenzuolo e me lo sono sempre rimproverato», ricorda Giulio che racconta come la sua esistenza è sprofondata nel dolore. Perché la mafia gli ha ucciso poi anche suo fratello Giuseppe, che se n'è andato inseguendo il ricordo di un padre che non ha avuto il tempo di conoscere sino in fondo. Non ha lasciato lettere, non ha lasciato parole. L'hanno trovato appeso a un lampadario, si è impiccato con il guinzaglio del suo cane.

In Sicilia ci sono tragedie che si trascinano fatalmente dietro altre tragedie, drammi privati che diventano drammi collettivi, vivi che diventano morti. Come quel poliziotto, Boris Giuliano, che quella sera ha il cuore in gola per ciò che sta per dire a Giulio e una mattina di sei mesi dopo a terra in un bar c'è lui. A nemmeno un chilometro dal lenzuolo bianco. Gli incroci dannati di Palermo. Lo stesso assassino è lì il 26 gennaio ed è lì anche il 21 luglio, quattro colpi di pistola e sette colpi di pistola, sempre lui, sempre Leoluca Bagarella.

«Quella sera ero uscito dal Diario, il giornale dove avevo cominciato a lavorare a dicembre..». Sale sull'autobus in via Libertà, la fermata in via Brigata Verona, una passeggiata e poi il mondo che lo schiaccia. Giulio Francese, che aveva ventuno anni, oggi è un uomo garbato che nasconde il male che ha dentro con un pudore meridionale fatto di misura, discrezione, di una tristezza sempre gentile. La sua memoria va a quel 26 gennaio: «Come ogni mattina, da un mese, facevamo il "giro” insieme mio padre in Tribunale, io per il Diario e lui per il Giornale di Sicilia dove era il cronista di giudiziaria. Eravamo diventati colleghi. Mi presentava gli avvocati, i magistrati, i cancellieri, mi voleva insegnare il mestiere, passarmi tutti i suoi contatti. Però sembrava avere fretta, sempre più fretta..».

A casa di Mario Francese arrivano telefonate di minaccia. Nell’ottobre precedente avevano bruciato l'auto del direttore Lino Rizzi, a settembre era andata a fuoco anche la villa di Casteldaccia del capocronista Lucio Galluzzo. «Una volta ho preso il telefono e ho sentito uno che sussurrava...lo ammazzeremo..». Ma Mario in famiglia non fa trapelare niente, meno di niente. Rifiuta la protezione della polizia, tranquillizza la moglie, rassicura i figli. 

Però ha fretta, sempre più fretta. «Eravamo al Palazzo di Giustizia e mio padre all'improvviso mi dice: "Prendi appunti”. Aveva un tono diverso, strano: “Se mi dovesse accadere qualcosa per la pensione devi fare questo, poi devi parlare con quest'altro”. Io provai a chiedergli "Ma papà, perché mi parli di queste cose?”, lui fu molto duro: "Prendi nota e basta”...».

L'ultimo giorno 

Il 26 gennaio mattina, un fuori programma alla procura militare di piazza Bologni, tutti e due a caccia di notizie. Poi Giulio torna a casa e il padre va ad Aspra, in campagna, «dai suoi uccellini, dalle sue galline e dai suoi conigli» e nel pomeriggio in via Lincoln, al “Giornale di Sicilia”. Mario Francese ha appena avuto un infarto ma non riesce a stare lontano dalla redazione, torna al lavoro, non ce la fa proprio lontano dalla macchina per scrivere. Un pomeriggio quasi tranquillo. Poi il saluto beffardo che ogni sera rivolge ai colleghi, prima di sparire dietro una porta: «Uomini del Colorado vi saluto e me ne vado». Una frase su rima che vuole dire niente, un gioco che si ripete immancabilmente con tutti gli altri che immancabilmente sorridono.

Un quarto d'ora dopo è sotto il lenzuolo bianco che apre la stagione dei “delitti eccellenti”. Dopo Mario Francese, il 9 marzo 1979 ammazzano il segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina. Poi Boris Giuliano. Il 25 settembre uccidono il giudice Cesare Terranova, che sta per diventare consigliere dell'ufficio istruzione dopo una legislatura in Parlamento come “indipendente” nelle liste del partito comunista. Poi, nel gennaio 1980 Piersanti Mattarella, a maggio il capitano dei carabinieri di Monreale Emanuele Basile, ad agosto il procuratore capo Gaetano Costa. Poi nel 1982 Pio La Torre e il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, poi nel 1983 l'altro capitano di Monreale Mario D'Aleo e l'altro consigliere istruttore Rocco Chinnici. Poi, c'è sempre un poi a Palermo.

Ma la prima pagina del romanzo nero siciliano è la sua. Lui che raccoglie soffiate ancora ignote per gli investigatori, le sue inchieste che vengono inserite nelle “informative” da inoltrare in procura, le fonti che gli annunciano che c'è un'altra mafia che sta per spazzare via tutto e tutti. Le indagini sul suo omicidio si indirizzano sugli articoli sulla diga Garcia, una grande opera pubblica per portare acqua nelle campagne della Valle del Belice, appalti e subappalti miliardari, una diga che dà più da mangiare che da bere. Ipotesi, piste, sospetti. Ma Mario Francese finisce come finisce perché, prima di ogni altro, comprende che i Corleonesi sono “scesi” a Palermo e stanno per conquistarla.

La doppiezza di Palermo

Il primo febbraio del 1979 Giulio prende il posto di suo padre al "Giornale di Sicilia”. In cronaca. Scalpita, vuole scrivere anche lui. La redazione lo lascia lì sospeso, lo protegge. Passa al “notiziario regionale”, poi allo Sport. C'è affetto intorno a lui ma non soltanto quello. Se ne individuano indizi nella sentenza dell'11 aprile del 2001 della Corte di Assise, presidente Leonardo Guarnotta, uno del pool di Giovanni Falcone, che condanna il killer Bagarella e mezza Cupola con in testa Totò Riina.

Tracce. C'è il vecchio editore, che è un abituale frequentatore del "papa della mafia" Michele Greco. C'è un redattore capo molto vicino ai potentissimi e mafiosissimi cugini Salvo, gli esattori amici di Salvo Lima e di Giulio Andreotti. C'è un cronista che è “compare di nozze” di Mimmo Teresi, l'ombra di Stefano Bontate. La doppiezza di Palermo, tanti galantuomini e qualche altro in bilico su un indecente confine.
Gli anni passano e nessuno ricorda mai Mario Francese. Si celebrano i morti di Palermo ma lui non c'è mai. Soltanto più di un quarto di secolo dopo, nel 2006, l'Unione cronisti italiani riuscirà a collocare una lapide davanti alla sua casa. Chi non lo dimentica mai è Giuseppe, il più piccolo dei tre fratelli di Giulio. Fotocopia ogni suo articolo in biblioteca, archivia gli appunti, ripercorre con ossessione ogni passaggio della vita professionale del padre. Inizia anche lui a scrivere su un foglio locale. Sempre di mafia, solo di mafia. Alla mattina presto si presenta in procura con le sue “intuizioni” da condividere con i pubblici ministeri, che intanto riaprono il fascicolo sull'omicidio. Quando ritiene che la sua missione si è esaurita, Giuseppe ci abbandona. È il settembre del 2002, ha trentasei anni.

Giulio Francese da un po' di tempo è in pensione ed è il presidente dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia. Io l'ho conosciuto tardi, nel 2012. Una mattina di quell'inverno l'ho accompagnato al cimitero dei Rotoli, nella borgata della Vergine Maria. Con un po' di vergogna gli ho confessato il rimorso per non avere scritto abbastanza e prima su suo padre. Abbiamo chiacchierato davanti alla tomba di Mario, siamo stati a lungo anche in silenzio. Sul vialetto dei Rotoli si sentivano gli uccelli nascosti fra gli alberi. Si sentiva, almeno così ancora mi piace pensare, una voce che ci salutava: «Uomini del Colorado vi saluto e me ne vado». 

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