Lo scorso marzo, l’appena nominato commissario all’emergenza Covid-19, il generale Francesco Figliuolo, annunciava che il governo puntava a vaccinare l’80 per cento degli italiani entro la fine di settembre e raggiungere così l’immunità di gregge. All'epoca, la campagna vaccinale veniva presentata come una guerra lampo: uno sforzo difficile, ma che se coronato dal successo avrebbe consentito il ritorno alla normalità.

Otto mesi dopo, tra quarta ondata, nuove varianti e riduzione dell’immunità vaccinale, è chiaro che questo scenario non è più realistico.

La terza dose

Da settimane l’Europa è in una nuova fase di picco dell’epidemia e l’Italia non è stata risparmiata. Anche se la situazione non è grave come in Austria o Germania, i nuovi casi sono raddoppiati in poche settimane e il governo non esclude il ricorso a nuove restrizioni, anche se promette che le applicherà soltanto ai non vaccinati.

Ma non sono solo i novax a rischiare il contagio. Gli ultimi studi hanno dimostrato che a sei mesi dalla seconda dose, la protezione fornita dal vaccino può calare fino a un terzo. Significa che la parte più anziana e vulnerabile della popolazione, vaccinata la scorsa primavera, è particolarmente a rischio proprio in questo momento.

La terza dose è l’unica arma efficacie che abbiamo per ripristinare un livello di protezione sufficiente. Ma se l’Italia è stata tra i più veloci nel somministrare il primo ciclo di vaccinazioni (tra i grandi paesi europei solo la Spagna ha fatto più in fretta), con la terza dose le cose non stanno andando altrettanto bene. Con quasi dieci somministrazioni ogni 100mila abitanti siamo alla pari con Spagna e Francia, ma dietro Germania e Regno Unito, che ne ha somministrate più di 25 ogni 100mila abitanti.

Cantare vittoria

Tra i problemi della campagna c’è la diminuzione dei punti di vaccinazione. Circa un terzo degli hub è stato chiuso nel corso dell’autunno, quando la somministrazione di terze dosi non era ancora iniziata. Una decisione, presa da quasi tutte le regioni e che oggi appare come una prematura dichiarazione di vittoria.

A fine ottobre, ad esempio, ha chiuso l’hub di Cernuscono Lombardone, in provincia di Lecco, dove in sei mesi sono stati somministrati 160mila vaccini. Daniele Visconti, 29 anni, è un infermiere libero professionista che ha lavorato nell’hub per tutto il periodo.

Terminato il suo contratto, Visconti ha deciso tornare a occuparsi dei suoi pazienti, nonostante le molte offerte di continuare a lavorare al piano vaccini, alcune molte allettanti.

«Quello che vedo anche tra i miei colleghi è la profonda stanchezza dei professionisti della sanità – dice – Con vaccini e tamponi da fare e ospedali che devono comunque andare avanti, ci si rende finalmente conto di quanti infermieri manchino e di quanto quelli che abbiamo sono vicini al punto di rottura».

Caos all’italiana

Non aiuta nemmeno il solito disordine. Anche con la terza dose, ogni regione segue una sua strategia. «Soltanto Toscana e Lazio hanno creato un percorso distinto per ottenere la terza dose dal proprio medico di famiglia», dice Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale.

Le altre regioni, invece, vanno in ordine sparso. A volte si può ottenere la terza dose dal proprio medico di famiglia, in altre circostanze invece i medici di medicina generale sono impegnati esclusivamente negli hub. In alcune regioni, come il Veneto, la situazione cambia da Asl ad Asl. Cricelli sostiene che i medici di famiglia sarebbero le figure più adatte in questa fase, grazie alla loro familiarità con i pazienti.

Secondo i dati della fondazione Gimbe, in Italia ci sono circa 22 milioni di persone che avranno diritto a ricevere la terza dose entro la fine dell’anno. Tra loro sono in molti nelle fasce d’età più vulnerabili alla malattia. Altri milioni di italiani non hanno ancora ricevuto una dose.

Per raggiungerli tutti il prima possibile servirà non solo tenere in piedi le attuali strutture, ma copiare i modelli delle regioni più di successo e trovare un modo di evitare l’esaurimento del personale sanitario. La campagna vaccinale, insomma, non è una guerra lampo, ma una battaglia di logoramento. E se il governo Draghi intende vincerla dovrà trovare nuove armi o, almeno, non abbandonare quelle di cui si era già dotato.

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