Il 18 gennaio scorso una sentenza del Tribunale civile di Roma aveva condannato il governo italiano per i respingimenti a “catena” di richiedenti asilo lungo la cosiddetta rotta balcanica. Nella sentenza la giudice Silvia Albano aveva stabilito che «la prassi delle riammissioni informali in Slovenia è illegittima. Il governo italiano aveva tutti gli strumenti per sapere che le riammissioni avrebbero esposto i migranti, anche richiedenti asilo, a condizioni non umane e degradanti». 

Era accaduto, infatti, che il Tribunale aveva dato ragione ad un uomo di nazionalità pakistana, il quale aveva raccontato di essere giunto a Trieste nella metà di luglio del 2020 attraverso la rotta balcanica insieme a quattro connazionali. Qui, nella città giuliana, M. Z. aveva riferito di essere stato soccorso nella stazione dai volontari dell’associazione Linea d’Ombra e, subito dopo, però, di essere stato ammanettato e fatto salire su un furgone della polizia da alcuni agenti in borghese. Non solo. Il richiedente asilo aveva riferito, poi, di essere stato accompagnato al confine con la Slovenia e, da qui, dopo essere stato ospitato in una stanza priva di servizi igienici, senza cibo e acqua, aver firmato documenti senza l’ausilio di un interprete, era stato di nuovo “accompagnato” dalla polizia, stavolta slovena, al confine con la Croazia, dove l’uomo ha riferito ancora di essere stato malmenato con manganelli neri avvolti nel filo spinato.

«Insieme a tutto il gruppo sono stato caricato su un altro furgone e dopo 4/5 ore di viaggio sono arrivato in un luogo dove cinque agenti di polizia muniti di spray al peperoncino e con al guinzaglio un pastore tedesco, ci hanno urlato di correre in Bosnia», ha raccontato così M.Z la sua espulsione ai confini dell’Unione europea. M.Z. è l’uomo a cui la giudice Albano aveva riconosciuto il diritto di entrare in Italia per presentare la domanda di asilo e richiedere protezione internazionale, stabilendo l’illegittimità della procedura di riammissione attuata al confine orientale italiano sulla base di un accordo siglato tra Italia e Slovenia nel 1996, mai ratificato dal Parlamento italiano. 

Proprio tale procedura, secondo la sentenza emessa dalla giudice Silvia Albano, «è condotta in palese violazione delle norme internazionali, europee e interne che regolano l’accesso alla procedura di asilo, è eseguita senza la consegna agli interessati di alcun provvedimento e senza alcun esame delle situazioni individuali, dunque con chiara lesione del diritto di difesa e alla presentazione di un ricorso effettivo».  

Senza prove

Ora, però, proprio la mancanza di provvedimenti scritti, cioè, di prove, è il motivo per cui lo scorso 27 aprile, il Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti delle persone straniere e immigrazione, in composizione collegiale, ha accolto il reclamo proposto dal Ministero dell’Interno avverso l’ordinanza cautelare con la quale il medesimo Tribunale aveva riconosciuto il 18 gennaio del 2021 il diritto di M. Z. a presentare domanda di asilo in Italia; ordinando così alle Amministrazioni competenti di consentire il suo ingresso nel territorio italiano per esercitare il suo diritto a chiedere protezione internazionale.

Come spiega in punta di diritto a Domani l’avvocata Caterina Bove, legale dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione che aveva assistito nel ricorso l’uomo insieme all’altra legale dell’ Asgi, Anna Brambilla: «Il Tribunale è intervenuto sulla sola condizione del Sig. M.Z, stabilendo che questi non abbia fornito, nell’ambito di un giudizio di urgenza, la prova di avere fatto ingresso in Italia ed avere subito un respingimento informale verso la Slovenia». E tuttavia, sempre secondo Bove, «il Tribunale non ha smentito la ricostruzione del primo giudice circa i profili di illiceità delle procedure di riammissione attuate in forza dell’accordo stipulato in forma semplificata tra Italia e Slovenia e che nel 2020, secondo i dati ministeriali, hanno interessato oltre 1.300 persone».

Ammissioni e riammissioni

Violazioni, del resto, che erano state riconosciute dalla stessa ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, rispondendo a una interpellanza parlamentare di Riccardo Magi. «Tali riammissioni vengono effettuate anche nei confronti di coloro che hanno manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale», aveva detto. Riferendosi alle migliaia di persone, tra richiedenti asilo e migranti, che gli uffici di polizia della frontiera di Trieste e Gorizia hanno riportato in Slovenia, dal primo gennaio a metà novembre dello scorso anno, e che da qui, troppo spesso dopo inaudite violenze perpetrate dalle autorità di polizia croata, sono state ulteriormente riammesse in Serbia o in Bosnia. 

«Lasciate in condizioni di abbandono morale e materiale», come avevano denunciato nelle scorse settimane in un report la rete Rivolti ai Balcani, riferendo che «dalle questure del Friuli Venezia Giulia dal luglio a novembre del 2020 sono stati effettuati 863 respingimenti a danno di pakistani (395), afghani (246), bangladesi (97), turchi (30), eritrei (27) e poi ancora siriani (tre)». E ancora, come avevano riferito da Save The Children: «I numerosi respingimenti di migranti e richiedenti asilo ai confini con la Slovenia sono un elemento di particolare allarme, in quanto delineano possibili situazioni di violazione della Legge Zampa, cioè delle norme che tutelano i minori in Italia, norme che vietano l’identificazione di minori non accompagnati e il conseguente loro respingimento». Tutti potenziali rifugiati, migliaia. Rispediti in Bosnia. Ecco le prove delle violazioni dei diritti umani, al di là delle sentenze.

Stesse modalità 

Mentre proprio nelle ultime ore, l'assessore del Friuli-Venezia Giulia alla Sicurezza, Pierpaolo Roberti, ha auspicato che «la bufala del pakistano maltrattato abbia giusto risalto» ed aggiungendo: «Quello che chiederemo subito al governo è che si ripristinino da subito i respingimenti secondo le modalità adottate fino alla fine dello scorso anno chiarendo se le bugie del pakistano siano state dette in piena autonomia o suggerite da qualche abile manovratore».

Le modalità sono le stesse raccontate da centinaia di migranti che attraversano il girone dei respinti del Friuli Venezia Giulia, e a cui spetta ora, secondo un giudice del tribunale di Roma, di fornire l’onere della prova delle storie di violenza e respingimento. Come è quella raccontata da due uomini di nazionalità marocchina che il 20 dicembre scorso sono stati avvicinati alla stazione degli autobus di Trieste da tre agenti. E così hanno riferito: «Abbiamo viaggiato a piedi da Šturlić, in Bosnia ed Erzegovina, attraversando le montagne della Croazia. Per un mese intero. Dopo venti minuti dal nostro arrivo a Trieste, siamo stati fermati da militari in uniforme color kaki, probabilmente dell’esercito italiano, da lì a qualche minuto, poi, siamo stati circondati da circa 10 agenti di polizia che ci hanno promesso che saremmo potuti andare a Milano».

Ecco la storia di violenza che avrebbero subito, raccolta per prima dalla ONG Border Violence Monitoring Network. «Dopo tre ore i poliziotti ci hanno accompagnato in auto al confine italo-sloveno, nei pressi della città di Gorizia. Qui siamo stati consegnati a due ufficiali entrambi in divisa blu. I quali ci hanno picchiato più volte. Chiusi a chiave in una stanza, ci hanno dato da mangiare soltanto pane duro e acqua, verso sera». E ancora: «Dopo aver passato quasi un giorno in questo campo, dopo un giorno siamo ripartiti, accompagnati da quattro ufficiali in divisa blu all’interno di un furgone bianco. Lì abbiamo capito che eravamo stati consegnati ad altri ufficiali, croati. Loro sono stati molto duri. I militari croati ci hanno colpito con i manganelli sulla schiena e sulle gambe, poi siamo stati caricati su un furgone e scaricati di nuovo a terra. Abbiamo trovato una casa abbandonata dove ripararci, eravamo tornati di nuovo in Bosnia». Ecco i racconti dal girone dei respingimenti che comincia in Friuli-Venezia Giulia e termina fuori dall’Unione Europea. Anche se per qualcuno mancherebbero le prove. 

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