Ci siamo recati sulla frontiera per capire meglio cosa sta accadendo sulla rotta balcanica. In Bosnia, in Croazia, e poi sul confine italo sloveno. E riporteremo a Bruxelles l’esito della missione con una specifica iniziativa parlamentare.

Siamo stati in Bosnia per capire come sia possibile accogliere le persone in transito in condizioni disumane, nonostante le cospicue risorse investite dall’Unione europea. In Croazia per verificare sul campo se corrispondono al vero le tante testimonianze di migranti, anche minori, sulle violenze della polizia. L’atteggiamento arrogante che ha impedito, di fatto, a quattro europarlamentari di muoversi liberamente su territorio europeo è una pessima spia del modo di agire e pensare delle forze dell’ordine di quel paese. E sul nostro confine per comprendere le ragioni di quelli che di fatto si sono configurati come respingimenti illegali.

Parliamo di circa mille persone rimbalzate prima in Slovenia, poi in Croazia e poi ancora di nuovo in Bosnia, come in un gioco sadico in cui si torna sempre al punto di partenza. Lo chiamano the game, un gioco sporco in cui qualcuno ha barato. In gergo burocratico trattasi delle cosiddette riammissioni informali. Peccato siano illegali. Non solo perché violano l’articolo 10 della Costituzione, l’articolo 18 della carta dei diritti fondamentali dell’Ue e la Convenzione di Ginevra del 1951; sono illegali perché lo afferma una sentenza del tribunale di Roma che porta alla luce la condotta del ministero degli Interni che avrebbe applicato norme sbagliate riesumando un accordo bilaterale italo-sloveno del 1996, mai applicato prima, mai ratificato dal parlamento italiano.

L’implementazione di questa pratica avrebbe una data di inizio, maggio 2020, coincidente con una direttiva sembrerebbe a firma del capo di Gabinetto della ministra Luciana Lamorgese, prefetto Piantedosi, che peraltro ha svolto il medesimo incarico anche per l’ex ministro Matteo Salvini. Questo ci hanno raccontato le figure istituzionali incontrate durante la missione. Questa interpretazione delle norme avrebbe determinato l’impossibilità per mille persone di chiedere asilo al nostro paese. Mille persone consegnate di nuovo all’inferno della rotta balcanica, braccate dalla polizia croata, ricacciate nel campo di Lipa.

Dunque è giusto chiedere conto alle autorità bosniache, paese extra Ue, così come alle autorità croate e slovene, che invece sono suolo europeo. È doveroso verificare il funzionamento di Frontex. Ma per essere credibili dobbiamo mettere a fuoco le nostre responsabilità che non dipenderebbero da funzionari di polizia più o meno zelanti, ma da una precisa volontà politica del governo italiano.

Scaricare sull’ultimo anello della catena di comando non è mai una buona pratica. I dipendenti della polizia di stato italiana che operano sulla frontiera lavorano in condizioni di precarietà, con scarsi mezzi e risorse. Inutile tirarli dentro una storia più grande di loro. Casomai dovremmo interrogarci su come presidiare meglio quello snodo della rotta, potenziando accoglienza, mediazione interculturale, assistenza sanitaria, visto che continuiamo a considerare quel confine come interno quando nei fatti ha ancora caratteristiche esterne.

Dopo la sentenza del tribunale di Roma, dopo l’interrogazione parlamentare di Erasmo Palazzotto del 13 gennaio a cui ha risposto direttamente la ministra questa pratica sembrerebbe di fatto sospesa. Una buona notizia. Ora è tempo di ripristinare legalità e buone pratiche di accoglienza e di contrasto alla tratta degli esseri umani. Perché più rendiamo incomprensibili le prassi di accesso o attraversamento del nostro paese, maggiore sarà il potere dei trafficanti di esseri umani.

Per la nostra civiltà giuridica, per lo stato di diritto chi chiede asilo deve essere ascoltato e preso in carico. Tutto il resto riguarda una brutta pagina del modo in cui il nostro governo ha gestito la rotta in questi mesi. Basti ricordare che si tratterebbe complessivamente di  circa 3.600 persone, non di milioni. Nessun esodo biblico, solo la gestione ordinaria delle nostre frontiere.

Cerchiamo di restare fedeli ai nostri valori e alle nostre leggi. Senza cedere alla tentazione di esternalizzare a paesi terzi la gestione e il governo dei flussi. Insomma, non può essere la Libia il modello a cui guardare. Non può esserlo per un governo che abbia a cuore la Costituzione repubblicana e la tutela dei diritti umani.

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