Venerdì l’agenzia di salute pubblica britannica ha stimato che dei tamponi positivi effettuati il 14 dicembre, il 54,2 per cento siano da attribuire alla variante Omicron. La situazione non è uniforme: Londra sembra essere più avanti del resto della nazione, con Omicron responsabile di più dell’80 per cento dei contagi.

Ma il dato più preoccupante riguarda la velocità con cui la variante si sta diffondendo e sta sostituendo Delta. Due giorni prima, il 12 dicembre, la prevalenza era al 33 per cento e un giorno prima al 42 per cento. In tutte le regioni inglesi tranne quella sudoccidentale, il tempo di raddoppio dei casi di Omicron è inferiore ai due giorni, nella regione di Birmingham è in media di un giorno e mezzo. Per confronto, tra fine maggio e inizio luglio quando la Delta ha investito il paese rimpiazzando Alfa, lo studio React-1 condotto dall’Imperial College stimava un tempo di raddoppio di 17 giorni.

Se il Regno Unito sta riuscendo a seguire giornalmente la diffusione di Omicron è perché sfrutta una caratteristica particolare di questa variante rispetto a Delta, che permette di distinguere tra le due guardando al risultato dei test Pcr con cui vengono processati i tamponi senza bisogno di sequenziare l’intero genoma virale, una procedura, quest’ultima, che richiede più tempo e deve essere eseguita da laboratori specializzati.

I test Pcr cercano tre porzioni del genoma del Sars-CoV-2, ma le mutazioni presenti sulla proteina spike di Omicron rendono irriconoscibile per i test una delle tre porzioni, quella relativa al gene S. Il risultato globale del test è ancora positivo ma quello per il gene S è negativo. Guardando alla frazione di tamponi positivi con risultato negativo per il gene S si può stimare la frazione di casi dovuti a Omicron, seppure con una certa approssimazione. In Inghilterra il risultato relativo al gene S è noto per circa la metà dei test Pcr effettuati.

Il dubbio della virulenza

Sapere quanto è diffusa Omicron e quanto aumenta la sua prevalenza è un’informazione preziosa per poter pianificare con anticipo gli interventi di salute pubblica necessari a fronteggiare la nuova ondata. Sulla base delle stime dell’agenzia di salute pubblica brtiannica, i ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine hanno potuto tracciare degli scenari: nel migliore dei casi il picco delle ospedalizzazioni verrà raggiunto a gennaio 2022 con circa 2.400 ricoveri al giorno, nel caso peggiore il picco potrebbe sfiorare i 9.000 ricoveri al giorno, il doppio di quanto osservato a gennaio del 2021.

Questi scenari tengono in considerazione diversi gradi di efficacia di due e tre dosi di vaccino, diverse velocità di riduzione della protezione offerta dai vaccini nel tempo e la recente introduzione delle misure più stringenti previste dal Plan B (consigliato il lavoro da casa, obbligo di indossare le mascherine nella maggior parte dei luoghi pubblici chiusi, richiesta del passaporto vaccinale per discoteche e night club).

I ricercatori inglesi hanno assunto per ora che Omicron abbia la stessa virulenza (cioè la stessa capacità di causare malattia) di Delta, anche se dal Sud Africa, dove la variante è stata rilevata per la prima volta a fine novembre, arrivano segnali che indicherebbero una riduzione della virulenza.

In un’analisi presentata mercoledì scorso, Discovery Health, la più grande compagnia privata di assicurazioni sanitarie del paese, ha stimato che mentre con Delta venivano ricoverate 101 persone ogni mille contagiati, con Omicron il tasso di ospedalizzazione è di 38 ogni mille. È importante notare che l’analisi relativamente a Omicron si basa su sole tre settimane di dati.

La malattia grave

Sulla sinistra un ragazzo, con il padre, aspetta di poter fare un tampone rapido a Nicosia, Cipro (AP Photo/Petros Karadjias)

Gli esperti ritengono che questa riduzione sia in gran parte dovuta all’immunità pregressa presente nella popolazione, grazie alla vaccinazione e alle infezioni naturali con le varianti precedenti. Nella stessa analisi, infatti, Discovery Health in collaborazione con il South African Medical Research Council ha stimato che seppure la protezione offerta da due dosi del vaccino di Pfizer contro l’infezione è notevolmente ridotta con Omicron rispetto a Delta, quella dalla malattia grave resta sostanziale (70 per cento con Omicron contro il 93 per cento con Delta).

Queste stime sono coerenti con alcuni dati preliminari condivisi dal gruppo dell’immunologo Alessandro Sette del La Jolla Institute for Immunology, che segnalano che le mutazioni di Omicron riducono l’efficacia delle cellule T prodotte dopo un’infezione naturale con le varianti precedenti o dopo la vaccinazione molto meno di quanto non accada per gli anticorpi. Le cellule T sono una delle componenti della risposta immunitaria e giocano un ruolo fondamentale nel ridurre il rischio di progressione verso la malattia grave, mentre gli anticorpi proteggono dal contagio.

I ricercatori di Discovery Health sostengono che, anche tenendo conto dello stato di vaccinazione o di pregressa infezione dei contagiati, della loro età e di altri fattori di rischio, si osserva comunque una riduzione del 25 per cento nel rischio di ospedalizzazione per i contagiati con Omicron rispetto a Delta. Se questo dato fosse confermato anche in altri paesi, significherebbe che effettivamente Omicron è meno virulenta di tutte le altre varianti emerse finora.

La terza dose

Una speranza che questo possa essere vero almeno in parte, arriva dai laboratori della facoltà di medicina dell’Università di Hong Kong, dove un gruppo di ricercatori ha analizzato porzioni di tessuto prelevate dai bronchi e dai polmoni di persone infettate con Omicron per studiare la velocità di replicazione della variante. Ha osservato che 24 ore dopo l’infezione, Omicron replica a una velocità 70 volte superiore rispetto a Delta nei bronchi, cosa che spiegherebbe la sua maggiore trasmissibilità, ma 10 volte inferiore rispetto alla variante originale nei polmoni, fatto che suggerirebbe un minor coinvolgimento delle vie aeree profonde e quindi una minore gravità dei quadri clinici.

Venerdì un’analisi pubblicata dall’Imperial College e coordinata dall’epidemiologo Neil Ferguson ha però smorzato gli entusiasmi: confrontando il decorso di 120mila infezioni con Delta e 15mila con Omicron, non sembra che chi si contagia con Omicron abbia un rischio minore di sviluppare forme asintomatiche della malattia.

Per quanto riguarda i ricoveri, i dati sono meno affidabili perché considerano solo 24 ospedalizzazioni di persone contagiate con Omicron, ma sembrano indicare che un’infezione con la nuova variante abbia più o meno la stessa probabilità che aveva Delta di portare al ricovero. I ricercatori hanno sottolineato che è ancora presto per trarre conclusioni, ma Ferguson ha dichiarato al Financial Times che «Omicron rappresenta una grande e imminente minaccia alla salute pubblica» e ha ribadito l’importanza della somministrazione delle terze dosi.

Uno studio pubblicato martedì dall’agenzia di salute pubblica britannica indica infatti che anche se l’efficacia di due dosi di vaccino nell’evitare le forme sintomatiche della malattia con Omicron è notevolmente ridotta rispetto a Delta, a distanza di due settimane dalla somministrazione di una terza dose del vaccino di Pfize la protezione torna a livelli paragonabili a quelli osservati per Delta (71 per cento per chi ha ricevuto AstraZeneca nel ciclo primario e 76 per cento per chi ha ricevuto tre dosi di Pfizer-BioNTech). La scorsa settimana il Regno Unito ha reso disponibile la terza dose a tutti gli adulti già dopo tre mesi dalla seconda.

Il ritardo italiano

E nel resto di Europa cosa sta succedendo? Un altro paese sentinella per l’ondata di Omicron è la Danimarca. Le ultime stime dello Staten Serum Institue indicano che circa il 30% dei nuovi casi sarebbero dovuti a Omicron. Anche la Danimarca, pur essendo uno dei paesi europei insieme al Regno Unito a sequenziare di più, ha elaborato queste stime sulla base dei risultati dei test Pcr, per poter valutare più rapidamente la prevalenza della nuova variante.

In Italia le informazioni sulla diffusione di Omicron sono invece estremamente limitate. Venerdì scorso l’Istituto Superiore di Sanità ha reso pubblici i risultati di un’indagine rapida realizzata chiedendo ai laboratori abilitati nelle diverse Regioni e Province Autonome di sequenziare un campione casuale dei tamponi positivi notificati il 6 dicembre, di dimensione variabile per rispecchiare la diversa incidenza del contagio sul territorio.

La prevalenza di Omicron a livello nazionale sarebbe dello 0,32 per cento. Questa stima indicherebbe che il nostro paese si trova indietro rispetto a Regno Unito e Danimarca, ma è un dato che risale a più di 10 giorni fa e con una variante che raddoppia il numero di infezioni ogni due giorni, si tratta di un’eternità.

I dati che mancano

Foto al centro di vaccinazione pediatrica Roma 1, al museo Explora (Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Inoltre, avendo a disposizione il dato riferito a un unico giorno, non abbiamo idea di quale sia il tempo di raddoppio della variante e quindi non sappiamo dire quanto le misure messe in atto finora per contenere l’epidemia nel nostro paese, che si sono rivelate efficaci con Delta, siano capaci di contenere anche Omicron.

Non è chiaro se stiamo raccogliendo i dettagli dei risultati dei test Pcr sui tamponi positivi, che ci permetterebbero di capire anche solo approssimativamente come stanno le cose. Se lo stiamo facendo questi dati non sono pubblici. L’Istituto superiore di sanità, che abbiamo contattato per un commento, non ha risposto alle nostre richieste.

Potremmo sperare che il tempo di raddoppio di Omicron in Italia sia più lungo che nel Regno Unito, grazie al maggiore numero di misure di contenimento del contagio messe in campo nel nostro paese. Se così fosse potremmo sperare di attraversare questa ondata senza travolgere gli ospedali e senza stabilire nuovi record di decessi.

Ma la verità è che, con i dati in nostro possesso, non lo sappiamo. La decisione di Mario Draghi di chiedere un tampone negativo effettuato non più di 48 ore prima ai viaggiatori che entrano in Italia dai paesi dell’Unione Europea aggiunge un livello ulteriore di protezione. Ma anche in questo caso è difficile dire quanto sarà efficace.

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