Care lettrici, cari lettori

aprile sarà un mese di fuoco per la giustizia. Il ministero della Giustizia ha annunciato per la fine del mese la presentazione delle prime annunciate riforme, intanto però il rapporto tra il guardasigilli Carlo Nordio e avvocatura e magistratura sono molto tesi. Le Camere penali, infatti, hanno annunciato l’astensione di tre giorni dal 19 al 21 aprile e anche l’Anm ha protestato per l’esclusione da un tavolo ministeriale. Un clima che certamente non aiuta il percorso di via Arenula.

In settimana, invece, la giustizia è rimasta al centro del dibattito sotto molti frangenti. Uno è quello economico, con le polemiche sul nuovo codice degli appalti e lo scontro tra la Lega e Anac sul rischio che le nuove norme favoriscano le infiltrazioni della malavita negli appalti.

Il dibattito più interessante, però, riguarda la possibile abolizione o modifica del reato di tortura. Il reato, introdotto nel nostro ordinamento nel 2017 dopo quattro anni di lavoro e grazie all’impegno dell’allora senatore Luigi Manconi, ha riallineato l’Italia alle previsioni delle convenzioni internazionali.

Oggi Fratelli d’Italia propone di abrogarlo, mentre il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha frenato ma aperto a modifiche e in newsletter troverete un approfondimento.

Il tema, però, può venire guardato da un’altra prospettiva, che viene prima del tecnicismo giuridico. È ciò che fa Glauco Giostra, professore di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, che riflette su quanto la sua abolizione nuoccia – e non tuteli, come invece ritiene FdI – l’immagine delle forze dell’ordine.

Infine, continuo a monitorare con attenzione quel che accade sul fronte delle  magistrature speciali, i cui Consigli di presidenza devono ancora venir rinnovati dal parlamento, dopo otto mesi, nella loro quota laica. Un’inerzia che provoca effetti negativi e conseguenze, come spiegano in un commento un gruppo di magistrati aministrativi.

Il reato di tortura

FdI ha presentato un progetto di legge per abrogare gli articoli 613 bis e ter del codice penale, ovvero il reato di tortura e di istigazione alla tortura, trasformandole in una semplice aggravante, che prevede l’aumento fino a un terzo della pena.

Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha invece detto in parlamento che il reato rimarrà «senza se e senza ma» e che servono solo «aggiustamenti tecnici», in particolare due: la correzione della fattispecie da dolo generico a dolo specifico e cioe l’aggiunta delle «finalità di ottenere confessioni, punire o intimidire», come previsto nella formulazione del reato contenuta nella convenzione di New York: e la separazione del reato di tortura da quello di trattamenti inumani e degradanti.

Esattamente queste due correzioni – come spiego in questo approfondimento in modo più dettagliato – sono proprio quelle che anche FdI ritiene opportuno fare secondo la relazione al pdl. Solo che, secondo FdI, la soluzione per rendere operative queste modifiche è abrogare il reato e trasformarlo in aggravante generica, da aggiungere all’elenco dell’articolo 61 c.p., da applicare ai reati semplici di lesioni personali, percosse, ecc.

Vale notare che una abrogazione di questo reato rischia di far saltare numerosi processi in corso a carico delle forze dell’ordine per i pestaggi in carcere, primo tra tutti quello di Santa Maria Capua Vetere, dove alla metà dei 105 imputati viene contestato il reato di tortura.

Proposta di modifica della prescrizione

Un altro disegno di legge importante per il mondo della giustizia e presentato da Fratelli d’Italia prevede l’ennesima modifica dell’istituto della prescrizione. L’ultima revisione risale a meno di un anno fa, con l’approvazione della riforma penale da parte della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nell’ambito delle riforme previste dal Pnrr.

Nella sua versione finale, frutto di molti equilibrismi politici, prevede che permanga la legge Bonafede, secondo cui la prescrizione sostanziale (calcolata sulla pena edittale) viene stoppata dopo il primo grado. Mentre, nei gradi d’appello e di cassazione, viene introdotta la prescrizione processuale, secondo cui i processi d’appello e di cassazione devono durare al massimo due e un anno, trascorsi i quali il processo viene estinto per improcedibilità.

Fratelli d’Italia punta ad abrogare questo doppio meccanismo, ritornando quindi alla vecchia formulazione della riforma Orlando. La proposta è stata depositata a prima firma di Ciro Maschio, che è anche presidente della commissione, secondo cui «è una proposta aperta al confronto» e «la sostanza è abrogare il pasticcio creato dalla Bonafede e il tentativo non ben riuscito della Cartabia di rimediare al danno».

Il cronoprogramma del governo

Secondo quanto comunicato in un colloquio con le Camere penali dai vertici del ministero della Giustizia, il cronoprogramma fissato per le riforme sarebbe il seguente: entro il mese di giugno il governo emanerà uno o più disegni di legge inerenti alla revisione dei reati contro la pubblica amministrazione, con particolare riferimento alle fattispecie dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze illecite; della prescrizione; delle misure cautelari, con particolare riferimento alla collegialità delle decisioni; delle impugnazioni delle sentenze di assoluzione; delle intercettazioni, anche al fine di evitarne l’indebita pubblicazione; nonché interventi in materia di criminalità minorile.

L’elezione dell’ufficio di presidenza del Cnf

Il Consiglio nazionale forense eleggerà il 5 aprile il suo nuovo ufficio di presidenza.

In gazzetta ufficiale sono stati pubblicati i nomi dei nuovi consiglieri eletti dai consigli degli ordini ormai qualche mese fa: Enrico Angelini (Genova); Leonardo Arnau (Venezia); Ettore Atzori (Cagliari); Giovanni Berti (Bologna); Giuampaolo Brienza (Potenza); Camillo Cancellario (Napoli); Paola Carello (Roma); Giampiero Cassi (Firenze); Claudio Consales (Lecce); Patrizia Corona (Trento); Aniello Cosimato (Salerno); Biancamaria D’Agostino (Napoli); Francresco De Benedittis (Trieste); Donato Di Campli (L’Aquila); Francesco Favi (Catania); Paolo Feliziani (Perugia); Antonio Gagliano (Caltanissetta); Antonio Galletti (Roma); Nadia Germanà Toscana (Milano); Daniela Giraudo (Napoli); Francesco Greco (Palermo); Vittorio Minervini (Brescia); Francesco Napoli (R. Calabria); Mario Napoli (Torino); Giovanna Ollà (Bologna); Francesca Palma (Ancona); Alessandro Patelli (Milano); Francesco Pizzuto (Messina); Demetrio Rivellino (Campobasso); Federica Santinon (Venezia); Carolina Scarano (Bari); Lucia Secchi Tarugi (Firenze); Giovanni Stefanì (Bari); Antonello Talerico (Catanzaro).

Sciopero delle camere penali

L’Unione camere penali italiane ha proclamato astensione per i giorni del 19, 20 e 21 aprile, che culmineranno con una manifestazione pubblica.

All’origine dell’iniziativa, l’inerzia del ministero della Giustizia. La giunta, infatti, scrive che «sono rimasti senza esito i ripetuti impegni pubblici del Ministro Nordio ad avviare – sin dalla metà di gennaio- un tavolo (Camere Penali, A.N.M, accademia) per individuare gli interventi più necessari ed urgenti di modifica dei decreti attuativi Cartabia». I penalisti hanno da tempo segnalato le più gravi criticità, a partire dai problemi in materia di impugnazioni che riducono il diritto all’appello. 

Inoltre, l’Ucpi lamenta anche che «sono evidentissimi e convergenti i segnali di una politica della giustizia di nuovo prona ai diktat ed ai desiderata della magistratura», elencando lo stop alla riforma dell’ordinamento giudiziario e il rallentamento della riforma costituzionale per la separazione delle carriere in magistratura.

La politica della giustizia, è l’accusa dei penalisti, «in questi primi mesi si è puntualmente connotata per la spasmodica sua attenzione alle parole d’ordine del peggiore giustizialismo populista. Carcere, intercettazioni e addirittura codice antimafia contro il grottesco spauracchio dei rave-parties; ulteriore aggravamento del regime penitenziario del 41 bis e del regime delle ostatività».

In sintesi: i penalisti rilevano un contrasto più volte emerso anche sulla stampa tra i programmi di riforma «liberale» declamati dal ministro Nordio e le concrete iniziative politiche del governo. Leggendo il documento della Giunta l’impressione è che i penalisti lamentino una sorta di tradimento da parte di Nordio, nei cui confronti avevano subito espresso apprezzamento.

Petrelli si candida al vertice dell’Ucpi

L’avvocato romano Francesco Petrelli si è ufficialmente candidato a succedere a Gian Domenico Caiazza alla guida dell’Unione camere penali italiane. Petrelli lo ha comunicato durante l’ultima assemblea della Camera Penale di Roma, a cui è iscritto. Attualmente ricopre la carica di direttore della rivista dell’Ucpi, Diritto di Difesa. Classe 1957, il penalista è noto per la difesa degli imputati in alcuni tra i più importanti processi celebrati a Roma: l’omicidio di Marta Russo, la morte di Stefano Cucchi e l’omicidio Cerciello Rega.

Per ora non sono emersi i nomi di altri contendenti e la sua eventuale elezione andrebbe in continuità con la presidenza Caiazza. 

Scintille tra l’Anm e Nordio

L’Associazione nazionale magistrati ha protestato formalmente per quella che ha considerato una esclusione deliberata dal Tavolo tecnico di consultazione per la riforma del processo penale. Nel comunicato, ha scritto che «Sorprende la vistosa assenza da quel Tavolo, che è per definizione del decreto uno strumento di consultazione, di rappresentanze della Anm, a fronte di una folta partecipazione di esponenti autorevoli di istituzioni e organismi rappresentativi degli avvocati penalisti».

Immediata la risposta del ministero, con la precisazione che «è stato concordato con il presidente dell’ANM, Giuseppe Santalucia, un incontro per il prossimo 4 aprile tra ANM, CNF e le Camere penali, per dare avvio ad una serie di consultazioni».

Il giorno dopo, poi, sono arrivate all’Anm le rassicurazioni del capo di gabinetto che «la composizione del Tavolo sarà integrata con una rappresentanza della Anm non appena saranno forniti al Gabinetto i nominativi».

Caso rientrato, ma il livello di tensione rimane alto.

La gerarchizzazione delle procure

Il plenum del Csm del 29 marzo ha discusso di una delibera che sarebbe potuta apparire secondaria, se non per i nomi che ha interessato: si è trattato della presa d’atto sulla revoca da parte dell’allora procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, del fascicolo su Piero Amara, il legale esterno di Eni che ha fatto esplodere il caso Loggia Ungheria, che era stato assegnato al pm Stefano Rocco Fava, che è stato tra le parti del caso Palamara.

La presa d’atto del Csm (approvata con le astensioni di Mirenda, Miele di Md; Nicostra di Mi, i laici di FdI Natoli e Giuffrè e quella della Lega, Eccher), è stata approvata e non si sono rilevate scorrettezze rispetto al provvedimento del 2019 con il quale Pignatone ha revocato l’assegnazione del fascicolo al pm Fava, che aveva disposto nei confronti di Amara una misura cautelare e il sequestro di 25 milioni di euro.

Al netto di una vicenda che ha ancora molti punti non chiariti e che riguarda due tra i maggiori scandali degli ultimi anni – il caso Palamara e la presunta Loggia Ungheria – il dibattito ha riguardato il ruolo dei procuratori capi nei confronti dei pubblici ministeri e la gerarchizzazione interna delle procure.

In altre parole, se l’attuale organizzazione delle procure risponda al principio secondo il quale il magistrato si distingue solo per funzioni. Vero per i magistrati giudicanti, meno forse per gli inquirenti rispetto ai quali il procuratore capo rischia di assumere il ruolo di «monarca assoluto», come ha detto in seduta l’indipendente Andrea Mirenda.

La questione sono i poteri del procuratore capo e in particolare quello di revoca del fascicolo – sia pur con dei limiti di congruità -  introdotte dalle norme sull’ordinamento giudiziario della riforma Castelli del 2006, che molti giuristi considerano la causa del cosiddetto carrierismo.

L’attuale Csm ha deliberato l’inizio di un iter per una nuova circolare sui criteri organizzativi delle procure.

Sentenza del Csm sulla pm Sinatra

Nel febbraio scorso, il Csm ha condannato alla censura di Palermo Alessia Sinatra. Il suo caso, frutto di fatto della divulgazione indebita delle chat dal cellulare di Luca Palamara, è diventato subito un caso mediatico: Sinatra, infatti, aveva mandato dei messaggi a Palamara per chiedergli di penalizzare nella nomina a procuratore di Roma Giuseppe Creazzo, che era uno dei candidati. Il magistrato, infatti, nel 2015 la aveva molestata sessualmente e Sinatra, nel 2019, lo aveva raccontato a Palamara, dicendo che Creazzo non doveva venire nominato per nessun motivo.

Una volta resi noti i messaggi, la Sezione disciplinare ha aperto un procedimento sia contro Creazzo, condannato alla perdita di due mesi di anzianità, che contro Sinatra. In settimana sono state pubblicate le motivazioni della sezione disciplinare, che ha deciso andando contro la richiesta della procura generale (che ha chiesto l’applicazione dell’esimente per fatto di scarsa rilevanza).

Nella sentenza si legge che Sinatra ha praticato una giustizia fai da te, chiedendo l’intervento di Palamara invece che denunciare il collega, tenendo un «comportamento gravemente scorretto». Sinatra aveva spiegato che il suo era lo sfogo personale con un amico, ma secondo i giudici disciplinari il tenore dei messaggi era quello di comunicazioni volte a «condizionare negativamente» una votazione. Secondo il Csm, la sua è stata «giustizia privata inammissibile per qualunque cittadino e ancor di più se chi vi fa ricorso è un magistrato» e la «risonanza pubblica che hanno avuto i fatti ha oggettivamente leso non solo l’immagine di magistrato di Sinatra ma anche quella di tutto il Csm».

Il difensore di Sinatra ha già annunciato ricorso alle Sezioni Unite della Cassazione.

No all’estradizione degli ex terroristi

Dalla Francia arriva l’ennesimo no che mette definitivamente una pietra sopra l’estradizione dei 10 ex terroristi di estrema sinistra, condannati in Italia per fatti di sangue. 

Questa la motivazione la stessa già data dalla corte d’appello di Parigi: gli italiani sono stati giudicati colpevoli dalla giustizia italiana «in contumacia, senza aver avuto la possibilità di difendersi in un nuovo processo, la legge italiana non offrendo questa garanzia; la quasi totalità dei richiedenti hanno vissuto in Francia per circa 25-40 anni, un paese in cui hanno una situazione familiare stabile, sono inseriti professionalmente e socialmente, senza più nessun legame con l'Italia, cosicché la loro estradizione causerebbe un danno sproporzionato al loro diritto a rispetto della vita privata e familiare».

Se la sentenza mette fine alla questione, rimane invece aperto il dibattito sulla attendibilità dei processi in contumacia, quanto il tempo trascorso possa influire sulla pretesa punitiva di uno stato e soprattutto se ci siano margini per un percorso di giustizia riparativa, che possa aiutare a chiudere le ferite ancora aperte.

Caso Cospito, le motivazioni del no ai domiciliari

I giudici dei tribunali di sorveglianza di Sassari e Milano hanno sciolto la riserva sull’istanza dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame da 160 giorni, di domiciliari per motivi di salute.

Entrambi i giudici non hanno accolto la richiesta. Le motivazioni ricalcano il parere negativo proposto dalla procura di Milano: secondo la giurisprudenza, il fatto che la malattia sia stata volutamente autoindotta dal detenuto impedisce la concessione dei domiciliari per ragioni di salute. In ogni caso, si sarebbe trattato di un differimento della pena che non avrebbe intaccato il 41 bis, a cui Cospito sarebbe tornato una volta rimessosi in salute.

Nell’ordinanza di Milano si legge che Cospito, le cui condizioni stanno progressivamente peggiorando, «è costantemente informato dai sanitari degli elevati rischi per la propria salute» e i medici continuano a proporgli un protocollo per ricominciare ad alimentarsi.

Inoltre, stigmatizzano il fatto che lo sciopero è stato gestito «in maniera altalenante, con assunzione al bisogno ovvero occasionale degli integratori e comunque di acqua, sale e zucchero» e proprio questo dimostra che «è frutto di un ragionamento preordinato e consapevole», come del resto il detenuto ha ribadito anche durante l’udienza.

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