Giovanni Amoroso ha spiegato che i Lep vanno rideterminati e che tocca al legislatore. Sui giudici mancanti, ha auspicato che la nomina arrivi velocemente. Ma «la Corte è collegiale»
Con garbo ma nettezza, il neo presidente della Corte costituzionale Giovanni Amoroso ha cominciato il suo mandato alla guida della Consulta che durerà fino al 13 novembre 2026 senza rifuggire le questioni spinose. A partire dalla legge sull’autonomia differenziata: travolta da una pronuncia di incostituzionalità su 14 punti che ha fatto cadere anche il quesito referendario, dichiarato inammissibile.
Senza entrare nel merito politico, ma di fatto rispondendo a distanza ai governatori leghisti del nord e dell’esecutivo secondo cui basterebbero pochi ritocchi alla legge per renderla operativa, Amoroso ha chiarito che «i livelli essenziali delle prestazioni sono il pilastro su cui si regge la legge» ma, siccome sono stati «investiti dalla pronuncia di incostituzionalità», il legislatore dovrà rideterminarli. Della legge sull’autonomia «è rimasto solo un perno, intorno al quale va costruito ora l’edificio».
Fuor di metafora: della legge sull’autonomia rimane poco o nulla e va riscritta alla luce della sentenza della Corte con modifiche sostanziali, a differenza di quanto sostenuto da ultimo anche dal ministro Roberto Calderoli, che al Corriere della sera aveva detto che «non cambia nulla» e che «la gran parte dei rilievi mossi possono essere agevolmente superati in fase di attuazione della legge».
Proprio perché il cuore della legge è stato smontato, il referendum è stato dichiarato inammissibile. «L’obiettiva non chiarezza dell’oggetto del quesito avrebbe comportato il mutamento del quesito», trasformandolo non in una referendum sulla legge ma in un referendum sull’articolo 116 comma 3 della Costituzione che prevede l’autonomia differenziata, «e questo sarebbe incostituzionale», ha spiegato Amoroso anticipando la linea essenziale della motivazione della decisione.
Sullo sfondo della nomina all’unanimità di Amoroso, tuttavia, ha aleggiato la presenza di quattro scranni vuoti. I quattro giudici di nomina parlamentare non sono ancora stati indicati e il collegio si è espresso all’unanimità ma con soli undici voti. Proprio la tredicesima fumata nera della settimana scorsa – il quattordicesimo voto è atteso per domani – è stata l’occasione per il neo presidente di «auspicare che il collegio venga reintegrato al più presto» anche se «anche ora la Corte non è menomata».
L’inerzia del parlamento
Nel suo discorso introduttivo, Amoroso ha sottolineato un elemento significativo, che è risuonato come monito ai parlamentari: «Il mio mandato non ha linee programmatiche, perché la Corte è un organo profondamente collegiale» le cui due bussole sono «la Costituzione e la fedeltà ai precedenti della costante giurisprudenza costituzionale» e l’Ue, con cui «c’è uno spazio costituzionale comune».
E proprio la collegialità della Corte dovrebbe essere il primo deterrente proprio all’idea che i giudici rispondano a specifiche aree politiche. Invece, proprio gli incastri politici (due giudici alla maggioranza, uno all’opposizione e uno neutrale) stanno creando l’impasse per le nomine parlamentati.
Il rapporto tra Consulta e parlamento è stato al centro della riflessione di Amoroso, a partire dalle molte sentenze costituzionali in cui è stata espressamente indicata la necessità di un intervento parlamentare. «La Corte, quando indica modifiche di sistema che prevedono scelte demandate alla politica, manda moniti al legislatore» e in questi casi «il principio di leale collaborazione dovrebbe trovare attuazione».
Un auspicio che, su questioni delicate come il fine vita e le carceri, l’inerzia del parlamento finalmente si interrompa.
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