Si conclude l’era di Giuliano Amato alla presidenza della Corte costituzionale. Dopo nove anni da giudice e sette mesi al vertice, il dottor Sottile lascia palazzo della Consulta con la consueta ultima udienza (ma l’incarico si concluderà formalmente il 18 settembre), durante la quale la vicepresidente più anziana, Silvana Sciarra, gli ha dedicato il saluto ufficiale dei colleghi ricordandone la lunga carriera anche politica, a cui sono seguiti i commiati dell’avvocatura di libero foro e di quella dello stato.

L’attenzione, però, è stata tutta per l’intervento di commiato del protagonista, che si preannunciava ed è stato di sostanza. Amato, che ha interpretato in modo molto estensivo la comunicazione della Corte ha lanciato moniti istituzionali, di cui però era impossibile non cogliere gli accenti politici legati all’attuale fase storica. «Il mondo è cambiato nel corso dei nove anni che ho passato alla Corte. E non è cambiato in meglio», è stato l’esordio del presidente, che ha espresso un giudizio molto critico sulla politica attuale.

A peggiorare, infatti, sarebbero soprattutto i rapporti tra stati «dentro e fuori l’Unione europea», mentre sarebbero aumentati i conflitti nella società, «dove i sistemi politici si sono radicalizzati in particolare sui temi valoriali e identitari, rendendo sempre più difficili soluzioni condivise». Un bilancio pesante, soprattutto se pronunciato in una campagna elettorale in cui lo scontro si è polarizzato sul pericolo fascista e sul tema dei diritti, dall’eutanasia allo ius scholae fino alla cosiddetta famiglia naturale cara a Fratelli d’Italia.

Le critiche al parlamento

Proprio a questo Amato ha fatto riferimento non troppo velato, ricordando come «i casi davanti a noi ci portano spesso sul crinale che separa la nostra giurisdizione dalle scelte che competono al parlamento, ovvero a situazioni nelle quali le nostre stesse, legittime decisioni hanno bisogno, per realizzarsi, di un conforme intervento parlamentare. In ambo i casi ci capita più volte di incontrare o il silenzio del parlamento o voci in esso discordi, che ne prevengono le scelte». La scelta di parole è attenta, ma non sfuggono i riferimenti ai casi – dal fine vita alla modifica del carcere duro – in cui il parlamento, a causa delle divisioni politiche interne, ha disatteso le indicazioni della Consulta che aveva rimesso alle camere la riscrittura delle leggi secondo l’orientamento costituzionale.

In campo nazionale, Amato ha anche sottolineato «le difficoltà decisionali del parlamento proprio su temi nei quali premono con forza esigenze non adeguatamente riconosciute di tutela, cominciano a dar fiato a tesi che ritenevo ormai sepolte, sulla giurisprudenza come fonte del diritto al pari della legislazione e sulla legittimazione che ciò avrebbe nella previsione costituzionale secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo». Tradotto: un parlamento bloccato rischia di affidarsi agli interventi giurisprudenziali, seguendo invece di guidare le decisioni sulla base di chiari orientamenti politici.

Tentazioni antieuropee

Amato ha anche ammonito contro «le tentazioni che i tempi sollecitano e che già qualcuno sta raccogliendo: in campo europeo, dove la tentazione di affermare il primato del diritto nazionale su quello dell’Unione non è solo di Polonia, Romania e Ungheria».

Un riferimento indiretto ma inequivocabile, considerando che questi tre paesi sono certamente quelli che più stanno mettendo in discussione il principio europeista della sovraordinazione del diritto europeo rispetto a quello locale, ma in particolare Polonia e Ungheria sono soprattutto i riferimenti internazionali di Giorgia Meloni.

Il presidente uscente ha anche messo in evidenza il rischio del «caos istituzionale», nel caso in cui chi assuma la guida del paese ceda alla tentazione di abusare dei propri poteri: «La soluzione non è che ciascuno dei poteri profitti delle difficoltà per fare ciò che gli pare giusto e che tuttavia tocca all’altro», ha detto, spiegando che «l’esercizio responsabile, e certo non timido, del proprio potere è un dovere istituzionale, ma con il rispetto del suo limite, che è parte non rinunciabile della rule of law».

Rispettando la cifra distintiva del suo mandato da presidente, Amato è intervenuto in chiave istituzionale ma con riferimenti tutt’altro che velati all’attualità politica, di fatto ribadendo il giudizio critico che già aveva espresso nei confronti dei suoi rappresentanti durante il meeting di Rimini, in cui aveva parlato di una politica «non attrezzata per il compito immane che abbiamo davanti», la cui «fragilità strutturale la porta a seguire e non a guidare» l’emotività degli elettori.

Chiusa l’esperienza di giudice costituzionale, il futuro di Amato è incerto. Negli ultimi trent’anni è stato la riserva della Repubblica il cui nome viene sempre incluso nella rosa per gli incarichi istituzionali, ma lui stesso ha detto che «credo che a 84 anni suonati non mi metterò a cercare un’altra cosa da fare».

Nell’attesa, un’altra scelta aspetta la Consulta: i pretendenti per la presidenza sono tre, tutti con la stessa anzianità di servizio, quindi i giudici costituzionali – appena il capo dello stato nominerà il nuovo giudice al posto di Amato – dovranno esprimere una preferenza tra Silvana Sciarra, Daria De Pretis e Nicolò Zanon. L’ipotesi è che, dopo Marta Cartabia, la Consulta possa essere di nuovo presieduta da una donna.

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