Cosa succederebbe ai processi aperti di Silvio Berlusconi, nel caso in cui venisse eletto al Quirinale? La Costituzione non prevede una soluzione esplicita, e anche i lavori dell’assemblea costituente sembra emergere la volontà di lasciare una lacuna costituzionale, che però trova soluzione negli orientamenti della dottrina giuridica.

La Costituzione disciplina solo i cosiddetti reati funzionali – ovvero quelli commessi nell’esercizio delle funzioni di presidente – e stabilisce che il presidente è irresponsabile per ogni atto compiuto nel compimento del suo mandato.

La dottrina intende gli atti di ogni genere, nell’esercizio delle sue funzioni, e l’esempio di scuola è quello dell’omicidio colposo avvenuto durante una battuta di caccia organizzata in onore di un capo di Stato straniero: essendo avvenuto in occasione dell’esercizio del mandato, non discenderebbe alcuna responsabilità presidenziale.

Gli unici reati funzionali per cui il capo dello Stato è imputabile sono previsti dall’articolo 90 e sono alto tradimento e attentato alla Costituzione. In questi casi, il presidente viene messo in stato di accusa dal parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta, e a giudicare sarà la Corte Costituzionale, integrata con sedici membri (i cosiddetti giudici aggregati) estratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore, che il parlamento compila ogni nove anni.

I reati comuni

La Carta però tace sui cosiddetti reati extrafunzionali, quelli compiuti prima del mandato oppure non nell’esercizio delle proprie funzioni. A colmare, la lacuna è intervenuta la dottrina costituzionale e quindi è possibile trarre delle conclusioni, sulla base dell’orientamento maggioritario.

La tesi prevalente è che siano procedibili tutti i reati comuni (cioè quelli al di fuori dell’esercizio delle funzioni) ipotizzati a carico del presidente della Repubblica. L’improcedibilità per una singola carica, infatti, violerebbe due principi costituzionali: il principio di eguaglianza dell’articolo 3 e il principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’articolo 112.

A giustificare questa interpretazione viene utilizzata anche la legge del 1989 sui reati presidenziali, che stabilisce che, se reati non rientrano in quelli previsti dall’articolo 90 di alto tradimento e attentato alla Costituzione, “il Comitato e il parlamento in seduta comune devono declinare la propria competenza e inviare gli atti alla giurisdizione ordinaria competente”.

Il lodo Alfano

Quindi, i processi di Berlusconi con ipotesi di reato avvenute prima dell’inizio di un suo ipotetico mandato presidenziale rimarrebbero tutti in piedi. E sarebbero procedibili anche tutti i reati eventualmente ipotizzati dai magistrati anche in corso di mandato, se commessi non nell’esercizio di funzioni di presidente ma nelle vesti di imprenditore, per esempio.

Eventualmente, il presidente imputato potrebbe chiedere rinvii di udienze per legittimo impedimento per impegni istituzionali, ma il processo così verrebbe solo rallentato, non certo fermato.

Proprio Berlusconi, da presidente del Consiglio, ha tentato per ben due volte di introdurre una sospensione dei processi penali a tutela della garanzia di continuità del mandato per le cinque più alte cariche dello Stato: premier, presidenti di Camera e Senato, presidente della Repubblica e presidente della Corte costituzionale.

Il lodo Schifani nel 2003 e il lodo Alfano nel 2008 prevedevano esattamente questo, ma sono state entrambe dichiarate incostituzionali dalla Consulta, che ha ritenuto ingiustificata l’immunità in violazione del principio di eguaglianza.

Tutte le interpretazioni, però, sono ipotesi di scuola: nessun presidente della Repubblica, infatti, si è mai trovato imputato davanti alla Corte costituzionale nè davanti al tribunale ordinario per reati ipotizzati prima dell’inizio del mandato.

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