Oggi si aprono le urne per i cinque referendum sulla giustizia: si voterà in un solo giorno, i quesiti sono molto tecnici e il quorum del 50 per cento più uno è considerato un miraggio anche dagli stessi promotori. Il sondaggio di Ipsos di fine maggio, infatti, ferma l’asticella dei votanti tra il 27 e il 31 per cento.

Secondo i sostenitori del sì, la causa del mancato quorum andrebbe ricercata in una sorta di congiura dei media e dei partiti contrari, che avrebbero imposto un “silenziamento” intorno al tema. In realtà, le cause della scarsa mobilitazione pubblica intorno a questi referendum devono essere cercate anche altrove.

Le ragioni politiche

A caratterizzare questi referendum è stata sin dall’inizio la peculiare alleanza nella raccolta firme: da una parte il partito radicale, storicamente impegnato nelle battaglie referendarie e sui temi del garantismo, dall’altra la Lega di Matteo Salvini, che invece in materia di giustizia ha sempre cavalcato posizioni securitarie.

Lo strano connubio ha dato una forte connotazione politica ai quesiti: la Lega si è intestata la raccolta firme e, pur sostenendo che il numero necessario fosse stato raccolto, ha preferito depositare invece le 9 richieste di referendum votate dai consigli regionali a guida di centrodestra. Parallelamente, la Lega ha continuato a lavorare al tavolo della maggioranza del governo Draghi per la riforma dell’ordinamento giudiziario, che di fatto “contiene” tre quesiti referendari su cinque. Dunque da un lato ha votato alla Camera (e voterà in settimana in Senato) la riforma Cartabia, dall’altro ha spinto i referendum che parzialmente la ricalcano.

La scelta della Lega si spiega con la volontà di utilizzare lo strumento referendario per mantenere la sua vocazione movimentista, marcando la propria differenza rispetto alla maggioranza di governo di cui pur fa parte. Con una precisa giustificazione politica: sostenere che la mediazione raggiunta con la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e partiti solo eccezionalmente alleati nello stesso governo tecnico non fosse politicamente soddisfacente. Con il passare dei mesi, la campagna referendaria è diventata così una mobilitazione prevalentemente di centrodestra (con l’associazione anche di Italia Viva, Azione e dei radicali) con Lega e Forza Italia come formali apripista per i 5 sì. Questo ha prodotto un risultato: l’identificazione del successo del referendum con un rafforzamento del centrodestra di governo. Un effetto, questo, reso ancora più inevitabile dagli errori di comunicazione: non si è trovato (e probabilmente non esisteva) un minimo comune denominatore tematico dei cinque quesiti per renderli riconoscibili agli elettori visto che la loro tecnicità difficilmente poteva appassionare l’opinione pubblica.

Poca mobilitazione

Accanto al dato politico, ne esiste anche uno pratico. La mobilitazione da parte dei sostenitori al referendum è stata ondivaga, soprattutto nei primi mesi, e anche nelle ultime settimane ha prevalso la polemica sul “silenziamento” dei quesiti più che la vera e propria campagna informativa. Si sono visti pochi volantinaggi e banchetti informativi, anche nelle città chiamate anche al voto amministrativo e nessuna cartellonistica o manifesti nelle grandi città. In una parola, i promotori non hanno voluto – o potuto – investire grandi risorse, anche economiche, a sostegno del sì. Dunque il dibattito e l’informazione si sono ridotte alle tribune elettorali in televisione, andate in onda a tarda notte e spesso disertate dai sostenitori del no, e alle dichiarazioni pubbliche dei leader di partito durante le campagne elettorali locali.

Le categorie

Paradossalmente, anche al netto del probabile insuccesso alle urne, i referendum sulla giustizia hanno contribuito a valorizzare le categorie professionali più investite nei temi della giustizia e dunque le uniche ad avere davvero posizioni forti sui singoli quesiti. L’avvocatura - dall’Unione camere penali ai consigli degli ordini alle associazioni specialistiche – si è mobilitata per il sì e ha guadagnato spazio sulla stampa, preso la parola nelle tribune elettorali e avuto una copertura mediatica che difficilmente avrebbe ottenuto in altre occasioni.

La magistratura, con l’Associazione nazionale magistrati e i gruppi associativi contrari ai quesiti, ha avuto altrettanto spazio per sostenere che i referendum (e la riforma Cartabia) siano vessatori nei confronti della categoria. Nella nicchia del mondo giudiziario il dibattito è stato acceso e divisivo ma non è arrivato, come ovvio, all’orecchio dell’elettorato generalista. Il che non significa che il Paese non sia sensibile al tema della giustizia, ma che il referendum è uno strumento efficace quando riesce ad essere polarizzante.

© Riproduzione riservata