In un tempo in cui l’aborto è al centro di “guerre culturali” ad alta intensità in gran parte del mondo, Giorgia Meloni ha scelto quella che può apparire come una linea di cautela e moderazione: non intende abolire né modificare la legge 194, ripete dall’inizio della campagna elettorale, ma «applicarla integralmente» nella parte che riguarda la prevenzione. Questo, dice, «non significa togliere diritti ma aggiungerli».

Sembra, la sua, una posizione lontana dal radicalismo di partiti alleati in Europa come il Pis polacco, o dei conservatori americani che hanno ottenuto il rovesciamento della sentenza Roe v Wade, o ancora dell’amico Viktor Orbán, che in questi giorni fa parlare di sé – oltre che per la condanna da parte del Parlamento europeo del suo «regime ibrido di autocrazia elettorale» – anche per una norma che costringe le donne ad ascoltare il battito cardiaco del feto prima di poter interrompere una gravidanza.

Ma si può davvero credere che un eventuale futuro governo guidato da una destra reazionaria, che flirta da anni con l’universo dei movimenti pro family e pro life, non metterà in pericolo il testo della legge 194? In realtà sì, Meloni probabilmente non mente. Ma questa non è di per sé una notizia rassicurante.

Quando sostiene di voler «aggiungere diritti», fino a parlare di un «diritto a non abortire», la leader di Fratelli d’Italia rivela un’abilità comunicativa appresa proprio dai movimenti antiabortisti ultraconservatori, che da decenni tendono a veicolare messaggi positivi e a impiegare il linguaggio dei documenti internazionali sui diritti umani, parlando per esempio di tutela delle donne vulnerabili.

Giorgia Meloni si trova, inoltre, nella condizione ideale per attivare questa retorica. In primo luogo, perché la legge 194 già attribuisce al servizio sanitario il compito di esaminare e rimuovere le cause che potrebbero indurre le donne alla decisione di abortire.

Poi, perché già oggi, in virtù degli articoli sulla prevenzione e sull’obiezione di coscienza, l’accesso ai servizi di interruzione di gravidanza è di fatto ostacolato dalla carenza di medici, nonché dalla presenza di attivisti dei “centri di aiuto alla vita”.

Allora, siccome fa più rumore un albero che cade di una foresta che muore lentamente (si perdoni la licenza), non sorprende che Meloni, in cerca di accreditamento interno e internazionale, abbia scelto di non seguire Orbán o Morawiecki e il loro sessismo apertamente ostile alle donne, ma di proseguire sulla strada del boicottaggio dell’iter dell’aborto dall’interno del sistema.

Così, però, la candidata in pectore alla guida il prossimo governo mette il dito nella piaga delle contraddizioni della legge del 1978. Una legge che le forze progressiste oggi non possono limitarsi a difendere, ma avrebbero il dovere di impegnarsi a migliorare, per garantire davvero alle donne il diritto di scegliere.

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