All’interno della sua serie di podcast, il giornalista del New York Times Ezra Klein ha conversato lo scorso Maggio con Patrick Deneen, politologo americano della University of Notre Dame. Deneen è l’autore di un libro intitolato Why Liberalism Failed, e il promotore di una conversazione online sulla necessità dell’affermazione di una destra (democratica) «non-liberale». L’aspetto fondamentale di questa nuova direzione conservatrice, secondo lo studioso, è riscoprire e difendere la famiglia come istituzione fondante della società, e combattere politiche che ne indeboliscano il ruolo.

«Sostenere la famiglia»

Discutendo di questo, Ezra Klein ha chiesto al suo ospite di offrire esempi concreti di cosa significhi sostenere la famiglia, notando che molte delle politiche degli ultimi anni, specie dei presidenti democratici, sono state oggettivamente volte ad aiutare le famiglie – dalle detrazioni fiscali per famiglie numerose all’istituzione di un programma nazionale di scuole per l'infanzia pubbliche e gratuite. E che anche la legalizzazione del matrimonio fra persone dello stesso genere può intendersi come una politica per la famiglia, perché consente di crearne di nuove senza per questo penalizzare quelle esistenti. A questo punto, Deneen ha chiarito il senso delle sue parole: il sostegno di cui parlava, e che dovrebbe caratterizzare il nuovo conservatorismo, è la difesa della famiglia “tradizionale”. Pur nel rispetto delle libertà individuali, ha continuato, bisogna riconoscere che le persone non nascono libere: nessuno di noi “sceglie” i propri genitori e parenti, ma comunque nasce da un nucleo composto da un uomo e una donna, e a questo ordine naturale deve attenersi. Nel prosieguo del dialogo Deenen ha poi offerto ulteriori dettagli su cosa intende per rispetto dell’ordine naturale.

Primo, una famiglia composta da un padre e una madre biologici, in cui i genitori siano molto presenti nella vita dei figli, dove è quindi preferibile che uno solo dei due abbia un lavoro formale, con il governo pronto a sostenere economicamente questa soluzione. Ha proseguito argomentando che ha senso che sia la mamma a rimanere a casa, e il padre lavori.

Secondo, servirebbe la limitazione della libertà sessuale. Se l’entità fondamentale è la famiglia tradizionale, allora non si dovrebbero parificare gli orientamenti affettivi o le identità di genere non “standard” (in quanto “contro natura”), e in particolare alle donne non può essere dato interamente il controllo del proprio corpo, se questo controllo comporta la violazione di una delle funzioni essenziali della famiglia (dare la vita). 

Quasi quarant’anni fa, la giurista di Harvard Carole Pateman argomentò come questo «contratto sessuale» (che è anche il titolo del suo libro) sia in  realtà centrale al contratto sociale che si basa su un modello di società essenzialmente patriarcale. La limitazione della libertà di disporre del proprio corpo si estende, per la donna, anche alle limitazioni in campo lavorativo e più in generale di autodeterminazione, su cui l’ultima parola spetta comunque al maschio capofamiglia, che moglie e figli sono addestrati e socializzati a compiacere.

Tutto ciò sarebbe poco rilevante se si trattasse solo di pulsioni nostalgiche di qualche intellettuale e di poche persone ossessivamente ancorate al passato remoto del piccolo mondo antico. Ma queste idee acquistano invece importanza quando ritornano, più o meno velatamente, a caratterizzare l’agenda politica conservatrice nel mondo. I due astri nascenti del Partito Repubblicano negli Stati Uniti, JD Vance e Blake Masters, candidati al Senato il prossimo Novembre, da mesi fanno apertamente riferimento alla famiglia “naturale” e alla proibizione dell’aborto nella loro agenda politica, mettendo le loro giovani facce e invidiabili curricula accademici a servizio delle ali più reazionarie dei conservatori. E a loro fanno eco sull’altro lato dell’Atlantico i discorsi di Giorgia Meloni, l’agenda di Vox in Spagna, e diversi partiti nell’Europa dell’Est, Ungheria e Polonia in testa.

Un progetto politico-culturale

La recente sentenza della Corte Suprema negli Stati Uniti che annulla la protezione costituzionale del diritto a terminare una gravidanza, e lascia la gestione della materia ai singoli Stati e quindi a maggioranze (o, spesso, minoranze) passeggere, di fatto degradando il diritto alla gestione del proprio corpo da universale a locale e arbitrario, è dunque solo l’ultimo atto di un progetto politico-culturale che va avanti da almeno due decenni e mira a rivedere diverse conquiste sociali.

Il giudice della corte suprema Thomas ha fatto capire che il matrimonio e addirittura i rapporti omosessuali, e l’uso di contraccettivi saranno anch'essi soggetti a revisioni. Perché? E su cosa si basa questo progetto?

Il primo pilastro consiste nello stimolare le paure di chi si sente minacciato dall’evoluzione in senso inclusivo ed egualitario dei diritti delle donne e delle minoranze (etniche, di orientamento affettivo e identità di genere, etc.). C'è chi percepisce questi cambiamenti come “troppo rapidi”. La fascia socio-demografica maggiormente in apprensione è composta di maschi bianchi non più giovani - non a caso quelli che hanno goduto finora dei maggiori privilegi e, presumibilmente, temono di perderli. E la psicologia ci insegna che la paura di perdere qualcosa è più forte del piacere di ottenere qualcosa di meglio, e può portare a posizioni e comportamenti inaspettati

Il secondo pilastro su cui si basa il progetto è l’idea di aderire a ideali forti e universali, ma con poche implicazioni concrete in termini di sacrifici personali. Nel caso dell’aborto, è il tema della difesa della vita. Ma a ben guardare si tratta di difendere la vita in astratto, tutt’al più potenziale e futura, non quella presente. Lo osserva tra gli altri il pastore metodista Dave Banhart: i nascituri sono un gruppo facile da difendere: non chiedono niente, non portano nulla di sgradevole e non mettono in discussione nessun aspetto della società, come invece fanno le persone concrete che hanno bisogno di noi: orfani, immigrati, carcerati, tossicodipendenti, poveri. I nascituri sono comodi: una volta che sono nati si può tranquillamente smettere di preoccuparsene. Sono perfetti per essere difesi senza alcuna forma di confronto e senza doversi fare troppe domande. Si tratta quindi di un ottimo argomento su cui fare campagna politico-elettorale, perché è di forte presa emotiva ma comporta poca responsabilità.

Cosa fare, come cittadini, politici e intellettuali progressisti, ma anche conservatori non reazionari, per affrontare quest’onda che cresce?

Occorre naturalmente informarsi bene: da un punto di vista economico e sociale, non è affatto una buona idea ridurre l’accesso all’aborto e avere i dati alla mano è necessario per parlarne. Di aborti clandestini e di mancati interventi in caso di aborti spontanei o di complicazioni di gravidanza si muore, e non fanno tanto bene imporre alle donne interruzioni allo studio, al lavoro, e la permanenza in relazioni violente. Limitare il diritto all’aborto non è particolarmente vantaggioso nemmeno per i figli:  gli indicatori di benessere sia fisico che economico dei bambini “indesiderati” e dei loro altri fratelli e sorelle sono largamente inferiori a quelli dei figli voluti e dei loro famigliari.

Non è un beneficio nemmeno per la società più in generale: i figli indesiderati sono concentrati in fasce che già normalmente “pesano” sulla spesa pubblica, i costi per la sanità di gestire complicazioni sono maggiori, crescono la dispersione scolastica, la disoccupazione e la delinquenza. Insomma questi limiti sono dannosi anche per chi li sostiene. Ma poiché le motivazioni per abolire il diritto all’aborto come abbiamo detto agiscono a un livello profondo e istintivo, gli argomenti “razionali” e materiali non bastano.

Riconoscere gli aspetti psicologici di queste tendenze é un secondo passo fondamentale, e in particolare comprendere quanto esse dipendano da una strenua difesa dello status quo da parte, spesso, delle classi più privilegiate. È interessante notare, per esempio, che ci sono molte donne che si spendono per limitare il diritto all’interruzione di gravidanza e più in generale l’emancipazione femminile. Queste limitazioni, come osserva la filosofa Kate Manne (nel suo libro Entitled), sono necessarie per preservare privilegi e difendere uno status quo di cui anche molte donne, finché tutto va bene, tutto sommato beneficiano. Lo status quo riduce le incertezze e protegge il senso di identità di chi ne fa parte. È una cosa tanto naturale quanto miope, perché al conforto immediato possono seguire effetti negativi: un po’ come spendere tanto e ritrovarsi senza abbastanza risparmi per garantirsi una vita decorosa da anziani, o non regolarsi nella propria dieta e poi rischiare serie conseguenze sulla salute. Cambiare abitudini e credenze è difficile anche per il senso di “perdita” che ne deriva, e che può essere talmente forte da precludersi libertà e benessere futuri.

I cicli dei diritti

Del resto la storia, anche quella che riguarda la conquista dei diritti, spesso non procede linearmente. Nel suo libro «Career and Family», l’economista di Harvard Claudia Goldin mostra in particolare che i diritti delle donne sono evoluti in cicli di limitazioni ed espansioni. Goldin, in particolare, descrive le negoziazioni di diverse generazioni di donne istruite negli Stati Uniti per conciliare la possibilità di avere una famiglia e un lavoro remunerativo – con tanta fatica, e da qualche settimana a questa parte ancora di più, presumibilmente. Come osservano Giorgia Serughetti, Linda Laura Sabbadini e Concita de Gregorio, non ci si deve mai distrarre, né pensare che partecipare alla politica non sia importante. I diritti e la loro salvaguardia sono responsabilità di tutti, sempre. Ed è  particolarmente urgente chiedersi cosa siamo disposti a sacrificare in termini di privilegi personali per difenderli. 

Uno dei questi privilegi è proprio il senso di conforto e appartenenza che viene dal discutere solo con chi la pensa come noi. È necessario ingaggiare conversazioni sul diritto all’aborto in particolare, e su una maggiore inclusione e uguaglianza più in generale, con chi pensa che questi diritti vadano ristretti, comprendendo l’origine di queste posizioni. È essenziale coinvolgere tutti nel dibattito con rispetto, apertura all’ascolto e soprattutto facendo capire che tutti soffriamo delle stesse miopie e ci arrocchiamo sulle nostre posizioni; tra l’altro, c’è un bello zoccolo di patriarcato anche tra i progressisti su cui lavorare, ed è bene vederlo e ammetterlo. Ascoltare è il primo passo per aiutare chi sta puntando i piedi e si rifiuta di immaginare una società dove i diritti sono, semmai, estesi, e lo status quo cambia. Riconoscere l’investimento morale altrui e presentare argomentazioni bilanciate aiuta a comunicare con chi la pensa diversamente da noi.

L’onda di riflusso che stiamo vivendo è reale e motivata da paure profonde che vengono alimentate quotidianamente per essere dirette contro tutti noi. Armiamoci di fatti, empatia, tanta calma, autocritica e determinazione, perché per contrastarla c’è ancora molto da fare.

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