Siamo certi che le primarie siano uno strumento capace di risolvere con i numeri le contese e non, invece, di incattivirle nonostante i numeri? La vicenda bolognese è un caso esemplare di divisioni che permangono e anzi si radicalizzano a seguito delle primarie di coalizione dello scorso 20 giugno, finite con la vittoria di Matteo Lepore del Pd.

Le primarie di coalizione hanno l’effetto di mescolare le parti che le hanno combattute anche al di là delle appartenenze certificate con una tessera. Chi vince le primarie modella una lista elettorale intorno al proprio nome (quello del candidato sindaco) e guarda a coloro che hanno partecipato, sia attivamente sia come simpatizzanti, alla campagna in suo favore.  Lo stesso fa chi perde le primarie.  E’ ragionevole supporre che la partecipazione pro o contro sia una condizione minima per essere eventualmente inclusi o non nella lista. 

Questa logica – la regola del gioco democratico—non sembra convincere i perdenti delle primarie bolognesi di coalizione, in particolare Vittoria Geri e soprattutto Alberto Aitini, assessori della giunta di Virginio Merola in scadenza.

Aitini aveva per tempo espresso la volontà di correre per la poltrona di sindaco in una eventuale competizione interna al Pd, il partito al quale è tesserato nella corrente di Base riformista.  Ma quando Matteo Renzi ha lanciato la sindaca di San Lazzaro di Savena Isabella Conti come candidata del centrosinistra, la competizione per la candidatura a primo cittadino si è spostata dal partito alla coalizione. Lanciata la candidata renziana, il Pd ha deciso alquanto irrazionalmente, di entrare in un progetto di coalizione, mentre i due partiti avrebbero potuto andare separatamente alle elezioni. Ma tant’è.

Le primarie hanno dato il risultato che sappiamo: la lista Pd di Lepore ha vinto con il 60 per cento contro quella di Conti, ferma al 40.  Succede in questi giorni che Conti presenta la sua lista “Anche tu Conti” come fa anche Lepore. Restano fuori da quest’ultima (dopo molte polemiche e una larga consultazione nel partito) quei tesserati Pd (Aitini e Gieri) che avevano sostenuto l’avversaria del Pd alle primarie.  Sembrerebbe ovvio, ma non lo è per gli “esclusi”. 

La tessera ce l’hanno ancora e sono stati apprezzati assessori, dicono accusando di intolleranza la decisione di non candidarli. Strano però che quella tessera non sia stata un ostacolo a impegnarsi per la parte avversa nelle primarie, mentre oggi viene indicata come un passaporto per entrare in lista. 

Se le primarie fossero state interne al partito, l’esclusione degli sconfitti dalla lista sarebbe stata un’epurazione intollerabile. Il dosaggio proporzionale delle parti che hanno combattuto nelle primarie interne è una norma di fair play sacrosanta.

Ma nel caso di primarie di coalizione le cose sono diverse perché chi, pur avendo la tessera di un partito, fa campagna a fianco del partito avverso, non può ragionevolmente stupirsi di venire escluso dalle liste. La tessera non può pesare a intermittenza o quando fa comodo.  Soprattutto non può essere un pass per giocare su tutti i tavoli.

Certo, il baillamme poteva essere evitato non facendo le primarie di coalizione con Italia Viva.  Ma una volta cominciato il ballo occorre seguirne il ritmo e le regole fino in fondo: chi, pur essendo stato assessore Pd nel governo cittadino uscente, pretende che si sorvoli sul fatto che alle primarie ha combattuto contro il proprio partito e il suo candidato ha poca ragione da accampare e molto malposto vittimismo.  

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