A Londra gira la battuta di un parlamentare conservatore: «È la prima volta che è la nave ad abbandonare il topo». Così finisce la carriera di Boris Johnson, ripudiato dai suoi. Johnson è stato molte cose ma certamente non gli è mancata leadership ed è ciò che probabilmente lo ha perduto. Attaccate da ogni parte (sia all’interno sia dall’esterno) le democrazie occidentali – nessuna esclusa – si vendicano dimostrando la resilienza dei loro parlamenti. Leader troppo decisionisti – che si isolano dalle rispettive assemblee o dai partiti – perdono immancabilmente il potere.

Malgrado l’opinione che si può avere sulla sua carriera, Johnson è stato un leader accentratore: dopo una fase in cui Westminster era in balia di sé stesso (ricordate «order, order» di John Bercow), il premier è sembrato rimettere in riga i conservatori.

Ma gli hard brexiters sono giunti al potere con troppa smania di comandare su tutto, una forma di disintermediazione all’inglese a diretto contatto con l’elettorato pro Brexit. Quello di Johnson è stato un “governo inglese”, nel senso della Middle England che ha votato contro l’Europa ma anche contro il resto della Gran Bretagna.

Il parlamento – pur dominato dai Tories – lo ha mal sopportato e alla fine lo ha espulso come un corpo estraneo. Il Regno Unito non è un caso isolato. È accaduto da poco anche in Francia, con un’Assemblea nazionale dal paesaggio non conforme al voto delle presidenziali: i francesi paiono diffidare del potere accentrato solo all’Eliseo.

Il governo di Elisabeth Borne si è presentato all’assemblea nazionale senza chiedere il voto di fiducia (in Francia è una tradizione non un obbligo): troppo rischioso. Come sappiamo, succede anche in Italia dove il parlamento si prende regolarmente le sue rivincite su leader poco rispettosi della sua sovranità.

La lista è lunga e, per sopravvivere politicamente, i più talentuosi riescono a passare in un lampo da governisti ad abili interpreti delle logiche parlamentari. Nell’Europa del nord i governi sono senza eccezione di coalizione o di minoranza: necessitano cioè di una continua verifica parlamentare.

La debolezza del decisionismo

Il governismo decisionista non paga nemmeno nei sistemi presidenziali. A novembre prossimo ce lo mostreranno le midterm americane, nonostante ciò che potrà nel frattempo accadere a Donald Trump.

La società americana è profondamente divisa e ciò si rifletterà sulle maggioranze di camera e senato. Il sistema parlamentare mostra la sua resilienza malgrado gli attacchi russi al liberalismo o quelli della Cina sulla maggior efficienza del suo modello.

Nulla riesce a frenare il ruolo dei nostri parlamenti, anzi: più vengono criticati e più affermano la loro centralità. Tutto ciò ha un nome: democrazia. Essa nasce sempre da un’assemblea (da un noi) e non da un leader solitario.

Nessuna opzione politica favorevole a una riduzione dei poteri parlamentari – con rispettivo approfondimento di quelli dell’esecutivo – convince a fondo gli elettori o gli eletti: ogni qualvolta si cerca di comprimerne l’autorità, gli elettori si ribellano o lo fanno le assemblee elette a tempo debito.

Alcuni osservatori vedono in tutto questo un’involuzione: segnali di populismo o demagogia; disordine, inefficacia e lentezza delle procedure; burocratismo o trasformismo; sregolatezza o eccesso di libertà. Una parte di tali difetti sono certamente presenti nei nostri sistemi parlamentari e la ricerca di maggior efficacia (la necessità di decidere) è buona regola.

Tuttavia non si può mai prendere scorciatoie: la democrazia è nata assembleare e lo rimane. I cittadini lo intuiscono e, se si possono far trascinare da qualche leader per un certo tempo, tornano sempre al punto di origine. Con buona pace degli autoritarismi odierni, questa non è una cattiva notizia, al contrario. 

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