«Siamo un paese ma non una nazione» dice Oby Ezekwesely, nigeriana, più volte ministro, già vicepresidente della Banca mondiale, leader della società civile nigeriana e cofondatrice di Transparency international. Oggi ha ideato una scuola di politica, rarissime in Africa.

Tutta una vita passata a lottare contro la corruzione in un paese considerato tra i più corrotti al mondo. Eppure la sua conclusione è politica: la Nigeria non è ancora una nazione. Non esserlo divenuta non permette di vincere la battaglia della good governance. Infatti per farlo occorre produrre una classe dirigente che guardi al di là del proprio arricchimento personale. Malgrado la Nigeria sia divenuta una democrazia da almeno vent’anni, senza più colpi di stato militari, soltanto divenendo una nazione potrà subordinare gli interessi privati al bene comune. Ecco a cosa serve la sua scuola.

Sentire comune

Si tratta di una visione tutta politica. In Nigeria oggi non esiste nessuna reazione davvero nazionale alla violenza di massa che frena lo sviluppo e provoca tante vittime civili. Il rapporto Mass atrocities casualties compilato a Lagos, parla di quasi 5.000 vittime nel solo 2020: oltre il 40 per cento in più del 2019.

Oby precisa che il problema è che le violenze dei Boko Haram sono percepite solo come un problema del nord musulmano, mentre quelle del movimento #EndSars contro gli eccessi delle forze dell’ordine soltanto come una questione del sud cristiano. Si comprende bene la manipolazione operata da chi punta sulla divisione: il nord appare in crisi totale di sicurezza mentre il sud sente di averne in eccesso. È stato facile mettere i giovani di una parte contro quelli dell’altra, distruggendo così la dinamica unitaria dei movimenti giovanili di protesta. Bisogna creare uno spirito nazionale che oltrepassi le divisioni geografiche. È noto che le grandi diversità etnico-religiose del paese possono essere manipolate. In Nigeria anche le personalità più sensibili trovano difficile difendere la dimensione nazionale: quando l’emiro di Kano, governatore della Banca centrale, si è permesso di dichiarare che il nord stava retrocedendo in termini educativi e sociali, è stato subito sollevato dalle sue cariche. Manca una élite di patrioti che sappia mettere la nazione al primo posto.

Si tratta di un problema africano: la nazione non è mai nata, se non in casi eccezionali. Le classi dirigenti post coloniali sono state cosmopolite solo perché legate all’antica metropoli e poco propense a creare un vero nazionalismo. Un’eccezione fu quella di Mobutu che con l’“autenticità africana” immaginò un collante nazionale che tuttavia andò in declino a causa dell’incapacità ad arginare la corruzione che lui stesso favoriva. Numerosi paesi sono entrati in crisi appena l’unità nazionale è stata posta in discussione dalle componenti etniche. Da qui molte guerre. Numerosi stati africani si sono così trasformati in una sorta di federazioni di tribù, tenute assieme dalla forza o (finché è stato possibile) dall’ideologia. Uno stato brutale ed autoritario non garantisce la creazione di un vero spirito nazionale: si tratta di un processo più profondo che deve connettere assieme politica e cultura producendo una narrazione condivisa che cammini sulle gambe di una élite sparsa per tutto il paese. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta neanche l’afro-marxismo o il socialismo africano ci sono riusciti. Per evitare il rischio di essere deviato dalle solidarietà primarie (regionali o etnico-tribali), anche il metodo democratico deve tener presente tale esigenza.

La nuova élite

Alcuni osservatori di cose africane hanno scommesso sulla creazione di una nuova classe media di imprenditori e commercianti che potesse divenire la nuova élite nazionale. Ma nemmeno questo, alla prova dei fatti, è sufficiente. Se è vero – come nel caso del Kenya ad esempio – che tale nuova classe media può opporsi al conflitto etnico ed evitare il ripetersi di derive violente (la guerra fa male al commercio), ciò non basta a creare una rete di unità nazionale. Tale neo-élite in effetti è più connessa ai mercati globalizzati che patriottica ed è ancora poco propensa alla produzione interna.

Solo quando nascerà un ceto produttivo e manifatturiero legato al mercato interno (sia nazionale che continentale), l’Africa avrà una classe davvero concentrata sull’interesse nazionale.

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