La visita di Nancy Pelosi a Taiwan è stata intempestiva e provocatoria. La Speaker della Camera dei Rappresentanti – prima autorità di quel calibro a recarsi in visita nell’isola dal 1997, quando il suo omologo Newt Gingrich volle aggiungere alla sua visita in Cina una puntata a Taipei, raggiungendola però dal Giappone – ha gettato benzina sul fuoco in una regione che sembra sempre sul punto di incendiarsi e in cui si sarebbe certamente fatto a meno di una nuova crisi.

Sulle due sponde dello Stretto si “confrontano” una delle più fulgide democrazie presenti nel continente asiatico e uno dei più regimi più autoritari in assoluto ed è scontato che le autorità taiwanesi abbiano il diritto di ricevere la visita di qualunque ospite.

Sembra infine corretto che Taiwan venga sostenuta dalla comunità internazionale (nonostante solo tredici piccoli Stati, oltre al Vaticano, riconoscano attualmente la sovranità di Taipei, e questo dovrebbe farci riflettere, visto che le grandi potenze hanno, presumibilmente per ragioni di tipo economico, deciso di stringere rapporti formali con Pechino) visto che, da quando ha assunto la presidenza della Repubblica Popolare, Xi Jinping ha spinto in modo deciso sul pedale dell’attiva promozione della riunificazione (che quindi contemplerebbe l’ipotesi primaria della riunificazione pacifica ma non escluderebbe nel caso il ricorso alla forza).

La “violazione”

Dal punto di vista storico la visita viene vista dalla Cina come una enorme violazione degli impegni assunti dagli Stati Uniti nei tre “comunicati congiunti”. In quello del 1972, lo Shanghai Communiqué, gli Stati Uniti accettarono l’esistenza di una sola Cina, di cui Taiwan era parte integrante. In quello successivo, siglato nel 1979, fu formalizzato il riconoscimento del governo della Repubblica Popolare Cinese come il solo governo di diritto della Cina.

All’interno di questo contesto, comunque, si sancì la possibilità per Washington di mantenere contatti informali con Taipei. Nel terzo comunicato, del 1982, le due questioni furono integrate, in una sorta di ricomposizione del puzzle: gli Stati Uniti riconobbero il governo della Repubblica Popolare Cinese come unico governo di diritto della Cina e sancirono che Taiwan faceva parte di un’unica Cina; in aggiunta, il governo statunitense ribadì che non aveva intenzione di violare la sovranità e l’integrità territoriale cinese, o interferire negli affari interni della Cina, o perseguire una politica di “due Cine” o “una Cina, un Taiwan”.

Il patto stretto con i tre comunicati congiunti, che costituiscono il fondamento politico delle relazioni sino-americane, sarebbe stato, secondo Pechino, violato ripetutamente negli ultimi anni, fino a giungere all’amministrazione Biden, che avrebbe tentato di giocare la carta dell’“indeterminatezza dello status di Taiwan”, facendone una questione di carattere internazionale e mandando un segnale estremamente pericoloso alle forze indipendentiste taiwanesi.

Il momento peggiore

Nonostante gli impegni presi in passato, Nancy Pelosi, terza carica dell’amministrazione americana, non avrebbe comunque potuto scegliere un momento peggiore per fare visita alle autorità di Taipei e ribadire loro l’impegno statunitense a difesa della “vibrante” democrazia taiwanese. Dal punto di vista politico, infatti, il momento è particolarmente delicato per Pechino, visto che a novembre si terrà il ventesimo Congresso del Partito Comunista, in cui, senza alcun dubbio, l’“imperatore” Xi riceverà la sua terza investitura consecutiva (finora il limite era sempre stato fissato a due mandati) alla carica di Segretario del Partito e di Presidente della Repubblica (oltre che, naturalmente, di Capo delle Forze Armate).

Un momento in cui, nonostante la certezza del risultato, Xi dovrà rendere conto delle disastrose conseguenze economiche che hanno fatto seguito alla scellerata corsa all’estirpazione completa di ogni traccia della pandemia all’interno del paese – la cosidetta politica del “Covid Zero” – che ha spinto la Cina sulla soglia della recessione.

Per il presidente cinese la posta in gioco è alta, dato che egli sa perfettamente che la gestione della pandemia, dopo un inizio denso di successi, gli ha portato in dote una buona dose di borbottii all’interno della leadership.

Per non parlare della lotta  alla corruzione, avviata da Xi al principio della sua presidenza, le cui vittime designate sono state in larga misura i suoi principali oppositori politici e la sua assoluta ossessione nei confronti della centralizzazione del potere.

La visita di Pelosi, in maniera paradossale, oltre al rischio di rivitalizzare i conflitti regionali, ha accordato l’inattesa possibilità al presidente cinese di fare sfoggio della forza militare – che si sta pericolosamente estrinsecando in questi giorni a ridosso delle coste di Taiwan – e nazionalista.

Del resto, lo stesso presidente americano Biden, nelle settimane precedenti alla visita di Nancy Pelosi a Taipei, aveva manifestato la propria contrarietà, così come, secondo i ben informati, i piani alti delle forze armate americane, che, evidentemente, avevano fiutato quali conseguenze ciò avrebbe potuto avere.

Washington, infatti, è particolarmente preoccupata del fatto che l’asse Pechino-Mosca possa rinsaldarsi al punto tale che la prima cominci a fornire tecnologia ed equipaggiamento bellico alla seconda; ciò non è ancora avvenuto – soprattutto a causa del timore cinese che tale eventualità si traduca nell’essere ricacciati ai margini dell’economia mondiale – ma non è detto che non possa accadere in futuro.

I primi effetti

Del resto, la visita di Pelosi deve essere intesa come il sintomo di un ulteriore deterioramento dei rapporti sino-americani, e ciò potrebbe avere certamente delle conseguenze pericolose non solo per l’isola di Taiwan ma per l’intera regione asiatica.

Una dimostrazione di ciò è già avvenuta nei giorni scorsi, quando Pechino ha annunciato l’interruzione della cooperazione con gli Stati Uniti su ben otto dossier, compreso quello sulla difesa e sui cambiamenti climatici, vale a dire questioni di importanza globale su cui le due superpotenze dovrebbero per forza di cose provare a cooperare ricercando punti di contatto.

La “linea rossa” da non oltrepassare, di cui Xi Jinping continua a parlare da anni, potrebbe aver ricevuto, con la visita della Speaker democratica, una spallata per la leadership cinese, ma è plausibile che una nuova linea di demarcazione parta proprio da questa visita, e questa volta superarla potrebbe essere più pericoloso.

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