Come dobbiamo intendere la decisione di Ben Gvir, attuale ministro della Sicurezza nazionale israeliano, di bandire la bandiera palestinese da tutti gli spazi pubblici di Israele (Repubblica, 9 gennaio)?

Per anni, questo leader del partito Potere ebraico ha sostenuto l’idea di «espellere i cittadini arabi» da Israele. Un’espressione inquietante, se si pensa che Ben Gvir si è sempre dichiarato contrario alla soluzione dei due stati. E che questa soluzione è effettivamente impraticabile oggi, quando ciò che resta della Palestina “fuori” dagli incerti e militarizzatissimi confini di Israele, cioè la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, non è più nemmeno “fuori” da quei confini, essendo (con poche eccezioni) ogni villaggio o città palestinese letteralmente assediata dagli insediamenti dei coloni israeliani: e la terra che resta – poca – è talmente crivellata di muri, checkpoint, tunnel da aver perduto ogni continuità territoriale.

Ma allora, se né dentro né fuori possono stare, questi cittadini, cosa vuol dire “espellerli”? Si rassicuri il lettore: questa espressione un po’ da brividi, che ritroviamo in tedesco in molti report esposti a Yad Vashem (il bellissimo, terribile museo dell’Olocausto a Gerusalemme) va letta (salvo eccezioni) “spiritualmente”, per così dire. Come quando il prete predicava che il peccato comporta la morte – e la mamma ci rassicurava: ma no, solo dell’anima, via!

“Rendere invisibile”

Espellere vuol dire “rendere invisibile”, espellere dal raggio visuale. Lo spiega bene Nourit Peled-Elhanan, docente alla Hebrew University di Gerusalemme, La Palestina nei testi scolastici di Israele, Torino 2021.

L’eliminazione auspicata è (salvo eccezioni) «culturale e simbolica»: a partire dal nome. «Arabi», non «palestinesi» – dice Ben Gvir, e Pled-Elhanan chiarisce: è un modo per legittimare l’esclusione. Cancellare dalla vista l’identità dell’altro – perfino nel nome. Succede in tutti i testi scolastici israeliani.

Anche a questo servono le strade inaccessibili ai palestinesi che collegano invece ogni luogo di Israele a tutte le colonie illegali, i tunnel, i muri, secondo quel sistema tridimensionale di aggiramento così ben descritto da Eyal Weizman, (Architettura dell’occupazione, Bruno Mondadori 2009).

Ecco: con gli accordi di Oslo, che non hanno frenato l’espansione dei coloni più di quanto abbiano fatto le risoluzioni dell’Onu, la bandiera palestinese era stata legalizzata.

Ora invece, perfino in mano agli ultra-ortodossi ebrei, che la levano contro la contaminazione della religione con lo stato, o ai pacifici dimostranti contro il governo, a Tel Aviv, costituisce «una minaccia per la pace». Dell’anima.

La verità dei fatti

Però i palestinesi esistono. Cancellarne l’identità dal visibile non è soltanto violare un diritto umano, è rimuovere un pezzo della verità. Due popoli, una terra è il sottotitolo della Storia della Palestina moderna di Ilan Pappè (Einaudi 2014).

Forse la sola cosa irreparabile dell’ingiustizia è che la verità dei fatti sia ignorata nella sua integrità. E lo è sempre, in una certa misura: io credo che sia questa la tragedia della storia, quella che i filosofi dovrebbero ricominciare a studiare oggi, quando sta a zero la credibilità di tutti gli storicismi che ci hanno annebbiato la vista nel Novecento, da quelli millenaristici del «sol dell’avvenire» splendente sulle macerie del capitalismo a quelli cupi e tromboneschi del «tramonto dell’occidente», per non parlare di quelli alla Fukuyama sulla fine della storia o quelli protervamente irrazionalisti sul necessario conflitto di civiltà, alla Huntington.

Rimuovere la dimensione etica

Se ci pensate, tutte queste filosofie della storia hanno in comune la rimozione della dimensione etica, che è proprio quella del bene e del male. Eppure il tragico della storia non è certamente che non vi abbiano luogo beni e mali, cioè fatti carichi di valore o di disvalore morale, ma solo “narrazioni” di parte.

È che la forza di chi vince, giusta o ingiusta che sia la sua causa, prevale nelle narrazioni, mentre la verità tutta intera scompare dalla memoria umana. «La verità fugge via spaventata dal campo dei vincitori», scriveva una ragazza ebrea che detestava il Dio degli eserciti, Simone Weil.

È questa la tragedia per cui ogni umana religione ha sognato un aldilà: una redenzione, certo. Ricordo un taxista palestinese a Gerusalemme, che alla domanda se ci fosse oggi speranza di miglioramento della condizione palestinese mi rispose: «Un cielo tutte le cose sono rovesciate». Proprio così, al presente. In cielo. Ma forse ogni religione ha sognato soprattutto un’apocalisse. Cioè una “rivelazione”: che tutti sappiano tutta la verità delle cose avvenute. Lo disse un tempo una donna semplice e limpidissima, che era stata vittima di un singolo fatto della nostra storia, la vedova dell’anarchico milanese Pino Pinelli: «Giustizia è che tutti sappiano la verità».

Ogni mente umana onesta l’ha sentito: l’esatta conoscenza e il pieno riconoscimento dei torti e delle ragioni, di tutti i torti e tutte le ragioni, è già giustizia (e il resto è secondario, punizione e risarcimento non entrano neppure nel senso della parola “rivelazione”, e negli affreschi del Giudizio universale inferno e paradiso non sono che la scenografia della visione del vero, «che tutti possano vedere»).

È ancora  Simone Weil che lo dice: «La giustizia è nel suo nucleo è: verità». Ma io l’ho ritrovato scritto, questo pensiero, sul muro della piccola corte interna di un edificio fra i più antichi di Beit Sahour, un borgo vicinissimo a Betlemme: «Una mezza verità è la più vile di tutte le menzogne».

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