Tra i fenomeni più evidenti e farseschi di questa ondata di neonazionalismo portata dal governo meloniano c’è la madeinitalyzzazione, la trasformazione di ogni elemento comune in qualcosa di “made in Italy”. Molto recentemente è toccato al liceo – è di fine maggio l’approvazione del disegno di legge di valorizzazione dell’italianità in cui viene compreso anche questa accroccata ipotesi di un liceo made in Italy – ed è toccato al campionato di calcio – è di pochi giorni fa l’intervista al giornale spagnolo As dell’amministratore delegato della Serie A Luigi De Siervo che ha dichiarato trionfante: «Abbiamo concluso un accordo da 10 milioni di euro a stagione con il governo: il nostro campionato fuori dall’Italia si chiamerà Serie A Made in Italy».

Una lunga storia

Questo culto dell’identità italiana ha ormai una storia trentennale: inaugurata alla fine degli anni Novanta da chi cercava appigli concettuali alla fine delle ideologie, sostenuta a colpi di discorsi e proclami da Ciampi e Napolitano nei loro troppo lunghi settennati, finita per essere il collante che tiene insieme la destra postpolitica.

È abbastanza incredibile constatare oggi, ma c’è stato un tempo non troppo lontano in cui essere – e sentirsi – italiani poteva avere un valore simbolico molto differente. Se ad esempio guardiamo i video su YouTube della finale di coppa del mondo del 1982 tra Italia e Germania, ci accorgiamo che quando inizia a risuonare l’inno nazionale, nessuno lo intona.

Mettiamo al confronto quel momento con l’inizio della finale del mondiale 2006 in Germania o quello del campionato europeo 2012 contro la Spagna, ed ecco ci sembra di essere in due universi paralleli. Nel 2006, cantano tutti, sul campo, sugli spalti, ad alta voce; dalla diretta si sentono Rino Gattuso e Fabio Cannavaro sgolarsi fino a stonare. Nel 2012 l’afflato è ancora piú esibito: le telecamere indugiano sulla faccia di Gianluigi Buffon che canta con gli occhi chiusi, quasi in estasi. Pressano tutti la mano al petto, come ad abbrancarsi il cuore, i giocatori e gli spettatori, tanto che nei giorni successivi si scatena la polemica perché dalle immagini sembra che Mario Monti – allora presidente del consiglio – non abbia cantato. Persino Lucia Annunziata l’indomani in un evento al Senato, completamente fuori contesto, richiede esplicitamente a Monti se dalla tribuna d’onore abbia intonato Fratelli d’Italia, e lui è costretto a giustificarsi e a dichiarare che, anche se non si è visto, ha cantato.

Sovranismo gastronomico

La stessa parabola di italianizzazione forzata ha attraversato ovviamente anche il mondo del cibo. I supermercati si sono riempiti di diciture, etichette, marketing che magnificano le tradizioni italiane, sui marchi è comparso dappertutto il tricolore. In pochissimi anni la pubblicità si è adeguata e Italia è la parola più usata in qualunque spot. Si potrebbe anche qui fare qualche confronto emblematico. Prendiamo il marchio Cirio, per anni il logo delle passate e dei pelati era “Come natura crea” che diventava lo slogan “Come natura, Cirio conserva”: nel Novecento e oltre era celebrata la capacità dell’industria, e anche la modernità nel mantenere la genuinità del prodotto. All’inizio degli anni dieci questa narrazione è stata sostituita da un’altra. Il logo è diventato “Cirio, cuore italiano”, e negli spot davvero “Italia” e “italiano” sono ripetuti così tante volte da sembrare il famoso sketch dei Monty Python sulla carne Spam.

Addirittura l’invenzione della tradizione si spinge fino a dichiarare che, essendo stata fondata a Torino nel 1856, “Cirio era già Italia quando l’Italia ancora non c’era”. Ossia a attribuire ai barattoli di pelati un disegno risorgimentale. Per ritrovare nella storia italiana una simile magnificazione dell’identità italiana – cibo, tradizioni, orgoglio patrio – dobbiamo davvero riandare agli anni del fascismo, soprattutto i Trenta quando l’imperialismo straccione del regime tentava di riscrivere la storia nazionale alla luce del progetto di dominio espansionistico.

A produrre però questa ondata neonazionalistica non è soltanto l’isteria di propaganda del governo, ma anche mutazioni più complesse che si muovono a livello planetario. Quelle che per esempio intuiva Franco Farinelli già nel 2009 nel suo libro Critica della ragione cartografica. La globalizzazione porta a sostituire il concetto di spazio con quello di luogo, e quindi a rendere emotivo e tipico il nostro rapporto con il mondo. Il neofascismo al governo è solo la versione più scadente di questo processo.

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