A oltre un mese dall’inizio dell’invasione russa la sopravvivenza di milioni di persone, la possibilità di una possibile escalation, i danni all’economia globale continuano ad essere problemi che esigono una risposta urgente, ma allo stesso tempo giocano un ruolo di catalizzatore emotivo per una domanda che da troppo tempo stiamo posponendo: cosa ha provocato in occidente un sonno della ragione tanto lungo da non farci accorgere che il semplice confronto con modelli così diversi dalla nostra amata democrazia si sarebbe tramutato in colonne di carri armati? E cosa possiamo fare perché questo brusco risveglio ci tenga vigili in futuro?

La domanda non è un esercizio accademico per distoglierci da priorità più gravi. Pensare oggi a come ricostruire il nostro concetto di democrazia messo in crisi dalla guerra in Ucraina è una via obbligata, a meno di considerare come alternativa di trasformare in macerie anche il pensiero su cui si fonda.

La ricerca di nuove basi

Da europei ci sentiamo investiti del ruolo di inventori della democrazia e difensori del suo aspetto più moderno, uscito dalle ceneri del totalitarismo del secolo breve, ma se c’è una cosa che questa crisi è riuscita a dimostrare è che la nostra capacità di reazione rispetto a un attacco esterno è strettamente dipendente proprio dalla nostra capacità di compiere un’analisi critica della stessa democrazia. Un processo che non siamo stati più in grado di compiere negli ultimi trent’anni.

I summit europei di questi giorni, le voci uniche di un continente ricompattato e pronto a una difesa comune sembrano aver invertito la tendenza, ma bisogna fare attenzione: l’impulso che ha provocato questa reazione potrebbe non esserci utile per un ragionamento sul futuro a lungo temine. Già in queste settimane in cui la crisi sta diventando parte della routine quotidiana si avverte il rischio di tornare ai nostri particolarismi, mentre quello di cui abbiamo bisogno è una riflessione che ricrei le basi solide e consapevoli di un sistema di pensiero capace di reagire alle minacce in modo molto più costruttivo e permanente.

Ridefinire la democrazia

In una frase: dobbiamo ritrovare il contenuto della parola democrazia. Un concetto che tra la caduta del muro di Berlino e le prime bombe su Kiev abbiamo talmente dato per scontato da farlo diventare assiomatico. Non si può dare torto del tutto a Putin quando critica il modello della democrazia occidentale contemporanea dicendo che sostanzialmente non c’è (e contando molto probabilmente anche su questo per i suoi piani).

I regimi autoritari sono monolitici, facili da identificare e spiegare. La democrazia, invece, non esiste in quanto tale, ma in quanto frutto di un esercizio critico che ne garantisce l’evoluzione e quindi la sopravvivenza in una società che cambia. Per definizione la democrazia è l’unico sistema politico che per il suo progresso non necessita di alcun ricorso alla violenza, ma che pretende partecipazione. È malleabile, in grado di plasmarsi sulla realtà e rispondere alle sfide che le vengono poste. Fermare questo dinamismo significa svuotarla di ogni significato.

La paura

Ci siamo disabituati a discutere di democrazia e lo abbiamo fatto in nome della stessa parola per cui l’abbiamo celebrata: paura. Per anni la storia stessa, o l’impegno vivo frutto della memoria di generazioni che hanno vissuto una perdita concreta della democrazia o la minaccia dell’annientamento nella Guerra fredda, hanno creato una “paura attivante”, innescando quel dibattimento che ha portato a una reale evoluzione del sistema democratico. Cessata questa spinta è stata la volta della paura irrazionale, paralizzante. Abbiamo paventato costantemente il terrore della “perdita della democrazia” di fronte alla quale ogni processo decisionale si è sclerotizzato in un guscio rigido, vuoto e impermeabile. Un desiderio di restare immobili che sentiamo forte ancora oggi, in ogni titolo di giornale che sembra prospettare una catastrofe atomica o economica.

Il tempo sprecato

Eppure, noi che esaltiamo la democrazia dovremmo sapere che ogni libertà è allo stesso tempo conquista e rischio. Conquista, perché il raggiungimento dei valori democratici richiede uno sforzo considerevole; rischio perché una volta terminato lo sforzo, questi cominciano a perdere la loro importanza. Sembra un paradosso, ma solo se consideriamo la conquista di quei valori limitata a un’azione pratica, mentre dovrebbe essere un esercizio militante.

Pensate a come l’Europa ha reagito ai populismi prima di questa crisi, spendendo su di essi tempo e risorse intellettuali che potevano essere destinate a prevedere un altro tipo di futuro. Quelle richieste così urlate e sguaiate sono state scambiate per minacce all’esistenza del sistema democratico, anziché riconosciute come gli anticorpi necessari alla sua sopravvivenza. Ancora una volta la paura di perdere le conquiste della democrazia ci ha impedito di farla evolvere in qualcosa in grado di assorbire le critiche al suo funzionamento.

Una relazione nuova

Per farlo abbiamo strumenti che ci hanno già permesso in passato di portare al tavolo del dibattito anche i detrattori più aspri del sistema democratico. Un metodo che fa parte proprio di quei valori democratici di cui ci sentiamo portatori costruendo periodi di pace. Questo metodo è la cultura della convivenza. Una parola che riassume la creazione delle condizioni necessarie per realizzare uno “spazio di socializzazione”, dove la comprensione e l’accettazione dell’identità dell’altro diventano base di una relazione nuova, di reciprocità e non di contrapposizione. Questo metodo non fermerà la guerra in Ucraina, e certamente non servirà a convincere nessun dittatore a rinunciare al suo potere, ma potrà essere un punto di partenza per iniziare a ricostruire la base di un dialogo che prima ancora dei missili è stato attaccato dalla nostra noncuranza.

 

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