Se l’obiettivo è contrastare la violenza di genere, vanno tenuti presenti gli aspetti psicopatologici e la reattività delle persone intorno a chi minaccia. Un lavoro che si può fare attraverso dibattiti circolari condotti con gli studenti da personale preparato, che aiutino a costruire un pensiero critico
La discussione sull’ora di educazione sessuo-affettiva infiamma il dibattito parlamentare. Originariamente proposta per creare uno spazio di contrasto nella scuola al dilagare della violenza di genere, è poi stata riconsiderata nel timore che possa dare accoglienza alla discussione sui ruoli di genere e sugli orientamenti sessuali.
Nel dibattito che ne è seguito, è emersa una certa difficoltà a capire come e perché possa essere utile un’ora su questi argomenti: ascoltando i discorsi fatti da Valditara alla Camera, è sembrato che secondo lo stesso ministro, la violenza di genere possa contrastarsi semplicemente con l’empatia e il rispetto, e dunque con una onesta e impegnata trasmissione di valori generazionali, da mettere in campo nelle ore di lezione, che certo potrebbe pure filtrare in uno spazio dedicato al tema, ma che principalmente si originerebbe dalle tradizionali pratiche di apprendimento. Queste convinzioni parzialmente corrette – trascurano delle considerazioni importanti.
In primo luogo, la violenza di genere è un dispositivo che emerge dalle psicopatologie individuali: si tratta di un insieme di sintomi che ha cause nelle matrici familiari, per cui uomini giovani e meno giovani che hanno attraversato complesse vicissitudini nella prima infanzia maturano delle problematiche sul piano delle relazioni che si serviranno di comportamenti abusanti – i quali diverranno riconducibili a una diagnosi.
In secondo luogo però questi comportamenti abusanti potranno essere rinforzati e inflazionati dal contesto dei pari, oppure osteggiati e ridimensionati fino a giungere a un tempestivo trattamento: il contesto cioè ha spesso, anche se non sempre, la possibilità di incidere sulla gravità di quella diagnosi sulla dimensione e frequenza di quei comportamenti.
Decodificare il minacciante
Tuttavia, una delle grandi storture a cui capita di assistere di fronte per esempio i grandi femminicidi riguarda anche la difficoltà del contesto a decodificare quanto sta avvenendo. Solitamente il femminicidio arriva dopo un crescendo di azioni persecutorie che allertano – e neanche sempre – il contesto della vittima mentre il contesto dell’aggressore reagisce molto di meno. Ci si accorge del problema della minacciata mentre non si decodifica correttamente il minacciante.
Ora siccome nelle nostre scuole sono decenni che gli insegnanti nella stragrande maggioranza dei casi cercano di trasmettere empatia e rispetto nel rapporto tra i sessi, diviene evidente che forse è arrivato il momento di cominciare a proporre strumenti addizionali.
Questo anche perché se per un verso la scuola mantiene comunque il potere di un’agenzia culturale, la trasmissione dei saperi passa per un conflitto generazionale fisiologico al rapporto tra insegnanti e studenti, che in parte osteggia quella trasmissione di valori, la sposta su un piano semiconscio soprattutto quando il dispositivo di trasmissione è la lezione frontale – la quale, come modalità di relazione reifica quella asimmetria di forze che l’adolescenza vuole sfidare per mandato.
Se ne deduce facilmente che: non si può sperare di migliorare il problema della reattività collettiva al fenomeno affidandosi alla strategia del sermone, o degli exempla trasversali forniti dallo studio della letteratura e della storia, serve invece un dispositivo diverso che aiuti la solidificazione di un atteggiamento mentale e che nasca dai ragazzi stessi.
Il valore della prevenzione
L’ora di educazione sessuale, potrebbe essere allora lo spazio per questo tipo di lavoro. Si dovrebbe avvalere di sistemi di intervento diversi, con dibattiti circolari condotti con gli studenti da personale preparato, che aiutino a costruire un pensiero critico e di una lettura stratificata delle relazioni.
In realtà spesso ci sono progetti di lavoro che entrano nelle scuole e che fanno capo alle associazioni dei centri antiviolenza – che hanno elaborato delle strategie di intervento diverse, che aiutano sostanzialmente a generare una costruzione del pensiero critico e maggiormente sofisticato, portando i giovani a soffermarsi sulla valutazione di circostanze precise, mettendoli nella condizione di attivare le loro risorse, le loro potenzialità di costruire, modificare e migliorare una loro etica delle relazioni.
Questo tipo di spazio, affiancato alle modalità anche più gerarchiche e tradizionali di concepire il funzionamento scolastico permetterebbe alla scuola di rispondere a una doppia funzione: quella di rafforzare una diversa teoria delle relazioni, che aiuti tutti a cogliere i comportamenti che la tradiscono, che aiuti il contesto culturale a capire quando si vedono i segni di una disfunzione che porterà a delle forme di aggressività, quando non a riconoscere l’aggressività come tale; e forse anche quella di individuare tra i ragazzi precocemente coloro i quali sembrano portare già nell’adolescenza i segni di difficoltà e dolori importanti che meriterebbero di essere presi in esame onde evitare che esitino poi in comportamenti disfunzionali e criminosi.
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