L’uso del termine “genocidio” non dovrebbe essere riservato esclusivamente a eventi che riproducono in tutto e per tutto il paradigma dell’Olocausto. Al contrario, si tratta anche di una categoria normativa che può e deve essere impiegata ogniqualvolta ci si trovi davanti al rischio strutturale dell’annientamento di un popolo, una cultura, una forma di vita
Sotto la spinta dei fatti di Gaza e Cisgiordania, il termine “genocidio” è al centro del dibattito. Secondo alcuni la situazione dei gazawi non può essere letta alla luce di questa categoria; per altri le operazioni condotte dal governo Netanyahu sono senz’altro di natura genocidaria.
Tra le voci si sono distinte quelle di personalità di spicco del mondo ebraico, come lo scrittore Grossman e la senatrice a vita Segre, i quali hanno espresso posizioni diverse, il primo arrivando a evocare la possibilità che sia in atto un genocidio, la seconda rifiutando tale idea anche sulla base del sospetto che l’uso di tale categoria nasconda sentimenti antisemiti. Quest’ultima posizione poggia su una premessa fragile: che uno stato nato per offrire protezione a un popolo perseguitato non possa per definizione riprodurre le logiche dei suoi antichi carnefici. Una convinzione comprensibile dal punto di vista affettivo e identitario ma concettualmente problematica.
L’idea che il male incarnato dalla Shoah costituisca un unicum storico può impedire di riconoscere e nominare altre forme di violenza di massa come genocidarie. Ma non esiste “il” genocidio: esistono genocidi, al plurale, ciascuno con le sue dinamiche, intensità e forme storiche specifiche. Lo stesso Raphael Lemkin, che coniò il termine nel 1944, lo pensava come categoria ampia, volta a descrivere fenomeni sistematici di annientamento di gruppi, non necessariamente legati a un unico caso storico.
Esiste una definizione giuridica di genocidio, fornita dalla Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del ‘48: genocidio è «uno qualsiasi degli atti» commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, tra cui l’uccisione di membri, il danneggiamento grave alla loro integrità fisica o mentale, ecc. Tuttavia non va dimenticato che tale definizione “crea” un idealtipo utile per orientare giudizio e azione, ma non può render conto fino in fondo della mutevolezza delle situazioni storiche.
La categoria di genocidio non è solo giuridica o storiografica, ma anche morale. In quanto tale, può essere impiegata in chiave normativa, come suggerito da autori come Jacques Sémelin, per designare fenomeni che suscitano un allarme etico prima ancora che una condanna giuridica definitiva. Non è necessario che vi sia la certezza del processo in atto: è sufficiente un ragionevole sospetto perché si attivino strategie volte a prevenire il perpetrarsi del male o ad arrestarlo.
Nel caso palestinese è difficile identificare un piano genocidario centrale e ufficiale; ciò non significa che non siano in corso atti a carattere genocidario. Una rete di dichiarazioni pubbliche, ordini ufficiali e ufficiosi, omissioni, video non condannati, atti militari e appelli ideologici, hanno prodotto un clima che legittima la disumanizzazione dell’altro e ne consente la distruzione sistematica. Questa rete diffusa e normalizzata di violenza può – e forse deve – essere letta come espressione di una forma sui generis di genocidio, meno burocratizzato, più mediatizzato, ma non per questo meno reale. In linea con quanto affermato dalla giurista Helen Fein, il genocidio può anche essere processuale, incrementale, normalizzato, e non necessariamente dichiarato o pianificato in modo manifesto.
Di fronte a tutto questo è importante evitare sia reazioni semplicistiche che improprie delegittimazioni. Nessuna figura, per quanto rispettabile, può essere considerata un’autorità morale assoluta. La statura morale di Segre, costruita su un’esperienza storica unica e su un impegno civile esemplare, non viene annullata dal fatto che, in una circostanza specifica, non abbia offerto la risposta attesa. Questo deve semmai invitarci a riconoscere che anche le autorità morali sono storicamente situate, fallibili, interpreti di contesti e sensibilità non sempre coincidenti con quelle presenti. Come ha osservato Avishai Margalit, una società decente non è quella in cui le autorità morali sono perfette, ma quella che sa riconoscere i propri errori e imparare da essi.
L’uso del termine “genocidio” non dovrebbe essere riservato esclusivamente a eventi che riproducono in tutto e per tutto il paradigma dell’Olocausto. Al contrario, si tratta anche di una categoria normativa che può e deve essere impiegata ogniqualvolta ci si trovi davanti al rischio strutturale dell’annientamento di un popolo, una cultura, una forma di vita. Parlare di “genocidi”, al plurale, ci permette di riconoscere la pluralità delle forme del male e di attivarci per prevenirlo o arrestarlo. Vale anche e soprattutto per Gaza, dove il rischio genocidario appare evidente: solo riconoscendolo possiamo contrastarlo.
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