No, non è stato uno di quei lapsus che possono sfuggire e bene ha fatto il direttore di questo giornale a riprenderlo. Perché l’uscita del leader di Italia viva contro il reddito di cittadinanza nelle motivazioni usate riflette una visione di società. Il punto è che, con apprezzabile sincerità, Renzi esprime dei concetti sbagliati e soprattutto che non appartengono alla sinistra. Quindi basta accordarsi sulla coerenza tra quanto si dice e ciò che si è. Ora, quali motivi separano quelle parole da una sinistra che, per quanto acciaccata, non potrebbe condividerle?

L’ascensore sociale si è rotto

Dieci anni fa usciva un saggio di Tony Judt (Guasto è il mondo). Conteneva l’atto d’accusa più severo sulle storture del pensiero progressista dell’ultimo trentennio. La premessa era diretta: da fine Ottocento agli anni Settanta del secolo scorso l’Occidente aveva favorito un livello via via meno disuguale nelle sue società. Una tassazione progressiva, sussidi pubblici a chi arrancava e tutele di varia natura a compensare i capitomboli della sorte: le democrazie provavano a confinare l’antico conflitto tra eccessi di ricchezza e abissi di povertà. Tutto ciò sino all’irrompere di una cultura che questo impianto ribalta teorizzando l’era di un capitalismo (quasi) senza regole ad alimentare nuove forme di privilegio privato combinate a una indifferenza pubblica.

Le conseguenze? Un ascensore sociale inchiodato e la perversa profezia sui figli destinati a vite più grame dei padri. Aggiungeva Judt come il ridursi delle disuguaglianze trovasse storicaménte conferme in sé stessa, nel senso che più uguali diventiamo, più uguali ci convinciamo di poter diventare. All’opposto un trentennio di disuguaglianza crescente avrebbe avuto la potenza di imporsi come presupposto naturale della vita. «Non ci sono condizioni alle quali l’uomo non possa assuefarsi, specialmente se vede che tutti coloro che lo circondano vivono nello stesso modo», questo non è Judt ma Lev Tolstoj in Anna Karenina. Ora, in anni più lontani lo spirito volto ad ammirare il ricco e disprezzare il povero è stato letto come una causa universale di corruzione dei nostri sentimenti morali: questo non è Tolstoj, ma Adam Smith. Ed è esattamente a questa curva che la sinistra degli anni Novanta è uscita di strada. Anche qui con una parabola a descriverlo. L’anno è il 1996 e l’amministrazione Clinton vara una legge sulla responsabilità personale e le opportunità lavorative. Scopo: ridurre il numero di persone a carico dell’assistenza pubblica tramite il ritiro delle prestazioni erogate in caso di rifiuto di una occupazione retribuita di qualunque tipo. Arma carica per datori di lavoro convinti di poter trovare un lavoratore a qualsiasi salario.

La favola delle api

L’effetto fu raggiunto: calò il numero degli assistiti e assieme a loro i salari. Tony Judt non si limitava a denunciare il fatto, diciamo che vi infieriva. E paragonava la norma a una legge approvata in Inghilterra un paio di secoli prima. La New Poor Law del 1834, descritta da Charles Dickens in Oliver Twist. Obbligava disagiati e senza lavoro a scegliere fra un’occupazione col più basso compenso e il ricovero coatto all’ospizio dei poveri. Il punto è che per il secolo e mezzo a seguire i riformatori hanno cercato con ogni mezzo di abolire quelle “pratiche degradanti”. E ci sono pure riusciti, sostituendo quel tipo di legge con una rete di assistenza da parte degli stati concepita come un diritto. Tradotto: chi non aveva un lavoro non era più considerato colpevole della propria sventura. Soprattutto il discorso pubblico maturò sino a comprendere che definire lo status di un individuo in funzione della sua fortuna o sfortuna economica era un’oscenità.

Poi cosa accade? Succede che, per prima la destra e al seguito un pezzo della sinistra, resuscitano la morale vittoriana e si torna a credere esclusivamente negli incentivi, nell’impegno e nella ricompensa, in una ideologia del merito depurata di ogni premessa sulle disparità di partenza, il tutto accompagnato da sanzioni per chi non si adeguava allo spirito del tempo. In altri termini la logica tornava a essere una: se lo stato paga le persone per non fare niente, che incentivi hanno queste per mettersi alla ricerca di un’occupazione retribuita? Sì, insomma si rispolvera il criterio audace di Bernard de Mandeville ne La favola delle api. Nulla incita i lavoratori «a rendersi utili se non i loro bisogni, che è prudenza alleviare, ma che sarebbe follia curare».

Punire chi è rimasto indietro

Secondo Judt, Tony Blair non avrebbe saputo dirlo meglio salvo che il primo lo scriveva nel 1732. Comunque a risentirne è stato il nostro vocabolario. Ecco perché quella frase non è stata un incidente. D’altra parte il leader di Italia viva ha annunciato un referendum per abrogare il reddito di cittadinanza che lascia poltrire le persone mentre la vera sinistra crea lavoro. Ok, peccato che quel reddito abbia preservato migliaia di famiglie dallo sprofondo nella miseria e che, dati Inps alla mano, oltre la metà dei percettori di quel reddito non siano materialmente “occupabili” (in quanto minori, disabili, pensionati comunque sotto la soglia di povertà, affetti da patologie che non hanno loro garantito un assegno di invalidità).

E allora dove sta il riformismo? Nel “punire” chi è rimasto, non necessariamente per colpa sua, in fondo alla fila o nel provare a redistribuire qualche risorsa in una logica dove, senza assaltare il palazzo d’inverno, chi ha di più contribuisce un po’ di più? In tutto questo non passa giorno senza che esponenti di quel movimento incalzino il Pd sulla scelta obbligata tra il riformismo con la patente appena descritta e il populismo del Movimento di Giuseppe Conte. Detto che in un campo largo dovrebbe esserci spazio per chi voglia starci, forse la risposta dovrebbe fondarsi su qualche coerenza di merito, almeno per non risolvere la querelle in una inutile tarantella.

«Ciapa chi, ciapa là»

Anni fa quel genio di Arbore nel contenitore surrealista di Indietro tutta, tra un promo del Cacao Meravigliao e il cameo di Massimo Troisi, alias Rossano Brazzi, lanciò l’improbabile duetto musicale dei Los Marineros. La hit (sì, insomma) recitava così. “O scegli me o scegli lui…ciapa chi, ciapa là” con ritornello a tormento, “Ti devi decidereeeee”. Bene. Il capolavoro mi è tornato a mente leggendo proprio la serie di ultimatum che fonti di Italia viva rivolgono al Pd a che sciolga ogni ambiguità. “O scegli me o scegli lui” appunto.

Ripeto, la domanda è più che legittima. Italia viva dopo aver tolto la fiducia al governo che c’era ha percorso il sentiero della scomunica di quel movimento col quale pure si era alleata dopo il primo Papeete (agosto 2019). Sono scelte politiche ed è giusto rispettarle. Solo che sull’altro fronte, quello del Nazareno, parrebbe non meno legittimo considerare due aspetti. Il primo riguarda i numeri. L’ultimo sondaggio Ipsos per il Corriere della Sera attesta la Lega al 21,1 per cento, il Pd al 20,9, Fratelli d’Italia al 19. A seguire il M5s al 17,1 e Italia viva all’1,9. Che poi sarebbe come dire che tra il movimento di Conte e il partito di Renzi corrono 15 punti di differenza.

Mutuando in questo caso il Catalano, altro amore di Arbore: “Per vincere è meglio allearsi con una forza del 17 per cento, o con una dell’1,9?”. La politica, però, non è solo cifre e percentuali. È soprattutto valori, coerenze. Allora la domanda più seria dovrebbe trovare risposta nel merito delle scelte, dei contenuti. Ci si allea con chi si sente più affine alla propria visione del mondo, dei conflitti che genera, delle soluzioni da offrire. Giusto, non ci piove. E qui gli amici di Italia Vviva dicono una cosa legittima (“O scegli me o scegli lui…). Quindi sì, è vero, ci dobbiamo decidere. Soltanto sarebbe il caso di farlo seguendo la rotta della logica. Non dico il sol dell’avvenire, basterebbe la logica. O, se preferite, un vecchio pamphlet di Tony Judt datato 2011 perché scrivere libri è certo una forma generosa di condivisione rivolta agli altri, ma leggerli è spesso un buon regalo che si fa a sé stessi.

© Riproduzione riservata