Si lascia il Sud perché le opportunità non sono all’altezza delle competenze. Si lasciano le grandi città del Nord perché il costo abitativo ha superato la soglia della sostenibilità. Si lasciano le aree interne perché i servizi pubblici essenziali si stanno assottigliando
In Italia, scegliere dove vivere è diventato un privilegio. La politica continua a interrogarsi su quanti giovani partano, ma quasi mai su quanti possano davvero scegliere di restare. E quando il tema emerge — nei dati, nei convegni, sui giornali — lo si tratta più come un allarme da registrare che come una questione strutturale da risolvere. Nell’agenda del governo, non c’è ancora traccia di una strategia concreta per affrontarlo.
L’Italia vive da anni una trasformazione demografica che riguarda soprattutto i giovani. Non si tratta di un fenomeno improvviso né marginale: interessa il Mezzogiorno, le metropoli e le aree interne, e racconta un Paese in cui costruire il proprio futuro nel luogo in cui si vorrebbe vivere è sempre più difficile.
Si lascia il Sud perché le opportunità non sono all’altezza delle competenze. Si lasciano le grandi città del Nord perché il costo abitativo ha superato la soglia della sostenibilità. Si lasciano le aree interne perché i servizi pubblici essenziali si stanno assottigliando. È una dinamica trasversale, che accomuna territori diversi.
I dati
Il Rapporto Svimez 2025 ha messo cifre su questa tendenza già evidente: 175.000 giovani tra i 25 e i 34 anni hanno lasciato il Sud negli ultimi tre anni, e uno su due è laureato. A questi si sommano circa 123.000 italiani che nel 2024 si sono iscritti all’Aire per espatrio, in gran parte giovani e giovani adulti: la fascia 18-34 anni è quella che cresce di più (+50% sul 2023) e, insieme ai 35-49enni, rappresenta oltre il 70% delle partenze. Le città di partenza non sono solo meridionali: ci sono Milano, Torino, Roma, Treviso e Brescia.
Nel frattempo, le analisi più recenti sull’emigrazione e sulle condizioni giovanili segnalano come le grandi città italiane – in testa Milano e Bologna – stiano diventando sempre meno accessibili per la generazione under 35. Affitti elevatissimi e un costo della vita ormai fuori portata costringono studenti, neolaureati e giovani lavoratori a cercare altrove condizioni abitative e professionali più sostenibili.
La mobilità giovanile, dunque, non è un fenomeno regionale: è la nuova frattura nazionale. Riguarda non solo il mercato del lavoro, ma la qualità della vita, la struttura dei servizi, la possibilità di partecipare alla vita pubblica.
I numeri del Sud raccontano un paradosso: tra 2021 e 2024 il Mezzogiorno ha creato quasi 500.000 posti di lavoro (+8%), più che nel resto d’Italia. Eppure, continua a perdere capitale umano. Se i salari reali diminuiscono del 10,2%, se 1,2 milioni di lavoratori restano in condizione di working poverty, se le filiere produttive non riescono ad assorbire competenze avanzate, la scelta di partire diventa strutturale. Non sorprende che, negli ultimi quattro anni, il Sud abbia perso 132 miliardi di euro in competenze formate e poi migrate altrove.
I giovani non vogliono andarsene
Una ricerca che abbiamo condotto con il Gran Sasso Science Institute (Sonzogno, Faggian e Urso, 2022), con la collaborazione dell’Associazione Riabitare l’Italia, aiuta a sfatare alcuni falsi miti e fa emergere una verità spesso ignorata: i giovani delle aree periferiche non vogliono andarsene. Vorrebbero restare, se esistessero le condizioni per costruire un futuro credibile nei loro territori. La mobilità è vissuta positivamente solo quando è una scelta reversibile. Diventa dolorosa quando si trasforma in una fuga che spezza legami e identità. In molti casi, non è la volontà di partire a muovere, ma l’assenza di alternative.
Questa dinamica si comprende a partire da un’idea semplice: la qualità dei servizi incide direttamente sulla possibilità di costruire il proprio futuro nei luoghi in cui si vive. Un nido accessibile, trasporti affidabili, una scuola che funziona o un presidio sanitario vicino possono fare la differenza tra restare o sentirsi costretti ad andare altrove. A questo riguardo, è stato dimostrato che la chiusura di servizi scolastici in piccoli centri comporta una grossa perdita di residenti. L’assenza di una scuola elementare può tradursi in una riduzione di popolazione fino al 25%.
Quando le opportunità professionali sono coerenti con le competenze presenti e le istituzioni aprono spazi reali di partecipazione, i giovani trovano motivi per investire nelle loro comunità.
In questo quadro, le politiche di coesione sono decisive: possono dare continuità al lavoro del Pnrr, rafforzare i servizi essenziali e creare le condizioni per rendere concreto il diritto a restare. Servono non misure episodiche, ma una strategia integrata su lavoro, casa, mobilità, partecipazione.
Perché ciò accada, questo diritto deve diventare un obiettivo esplicito di politica pubblica, con target chiari, indicatori verificabili e risorse dedicate.
La vera domanda, quindi, non è quanti giovani partiranno, ma quanti potranno davvero scegliere. Ed è qui che entra in gioco la responsabilità politica.
*Ricercatrice presso Università Roma Tre, componente Direttivo dell’Associazione Riabitare l’Italia
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