La Russia di Boris Eltsin e ancor più quella di Vladimir Putin sono stati, fino all’altro ieri, interamente nelle grazie delle democrazie occidentali. I legami economici, la dipendenza energetica, le vacanze e gli affari degli oligarchi, i posti ben gettonati nei consigli di amministrazione delle imprese russe, ben valevano la chiusura di entrambi gli occhi verso le repressioni dei dissidenti, gli avvelenamenti, le esecuzioni dei giornalisti, le invasioni dei territori indipendenti e sovrani circostanti.

Putin è un criminale da vent’anni almeno ma è stato funzionale al benessere e la conservazione dell’occidente. Così come despoti liberticidi, per rimanere al presente, sono Recep Tayyip Erdogan e Viktor Orbán, ma a loro ci si affida (a pagamento) per tenere i profughi lontano dagli occhi e dal cuore. 

I talebani rappresentavano l’antitesi di tutto ciò in cui crediamo anche negli anni Ottanta, quando erano alleati privilegiati degli Stati Uniti durante l’invasione russa. Il narcotrafficante Manuel Noriega ha governato Panama a nome e per conto della Cia, per garantire l’occidente, fino a quando, un bel giorno, è diventato il cattivo della storia.

Ad Augusto Pinochet non solo è stato fornito supporto per sopprimere il governo socialdemocratico di Salvador Allende; ma anche le basi ideologiche, un’onta indelebile anche per la comunità accademica, specie quella delle scienze economiche.

Nella patria dell’habeas corpus, il Regno Unito, non pochi videro in Hitler un interlocutore strumentale alla conservazione di certi rapporti sociali e internazionali, finché non è stato più digeribile, ma ben dopo l’incendio del Bundestag e i rastrellamenti che portarono alla Shoah.

La monarchia e la borghesia liberale italiana, pur di tenere a bada i movimenti operai, si consegnarono senza troppi patemi a Benito Mussolini, quando già le camicie nere ammazzavano sindacalisti, deputati e intellettuali.

Prima il benessere

Foto AP/Thibault Camus

C’è un filo comune in questi patti col demonio: la ferrea volontà delle classi dirigenti di mantenere le cose come stanno, il terrore di perdere privilegi e stili di vita che sì, la rivoluzione industriale e la capacità delle economie di mercato e dei sistemi democratici di sfruttarla al meglio avevano generato, ma che, quasi naturalmente, ha teso a concentrare i benefici in una minoranza di privilegiati a scapito della maggioranza.

Per mantenere questi benefici, le élite occidentali si sono servite di chi sistematicamente calpestava quelle conquiste con cui l’occidente creava la sua narrazione per poi riservarla a una privilegiata minoranza.

I problemi interni

La contraddizione non viene solo da queste relazioni pericolose, ma anche da fenomeni interni, incisivi e profondi: la crescente disuguaglianza e immobilità sociale, la precarizzazione e disgregazione del lavoro; e la polarizzazione del discorso pubblico, alimentata dal disagio sociale e dai modelli di business delle piattaforme digitali che lucrano sui sentimenti viscerali più che sulla qualità dell’informazione e la razionalità del confronto.

Con la drammatica conseguenza di una minore fiducia nella democrazia stessa, sempre più vista come un sistema che favorisce pochi, sempre gli stessi. 

Per mantenere l’ordine costituito, l’occidente rischia invece di assomigliare sempre di più a quei regimi illiberali ai quali, periodicamente, si affida perché quello stesso ordine possa essere mantenuto con altri mezzi.

Identità democratica

Charles Platiau/Foto AP

La democrazia si fonda su un’opinione pubblica informata; e quindi, è bene che i cittadini sappiano che, come tante volte in passato, lo scenario più probabile e auspicabile è passare dall’accettazione di un tiranno a quella di un altro, senza nessuna garanzia che quello che adesso non tolleriamo (ma che abbiamo tollerato per vent’anni) non si ripeta altrove. 

Ma mi chiedo anche come si possa negoziare da una posizione di qualche forza e autonomia senza essere consapevoli delle proprie mancanze, degli interessi che si sono sempre sostenuti e che forse hanno anche contribuito a portare alla situazione attuale.

Come si possa contribuire al progresso continuando a rimandare la definizione di un’identità genuinamente democratica, aperta e inclusiva che porti sullo scenario internazionale qualcosa di nuovo, di diverso e migliore, qualcosa che renda le relazioni internazionali non solo quel gioco a somma zero fra “potenze” che oggi molti contestano a parole ma il cui ordine che ne deriva finiscono per accettare. Non è mai troppo presto, non è mai inopportuno, tanto meno in tempo di crisi, farsi queste domande. Se non ora, quando?

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