Negare armi ai patrioti ucraini per evitare che si suicidino in uno scontro impari? Confidare che l’alto numero di caduti tra i soldati russi induca Vladimir Putin a trattare? Sperare nelle Nazioni Unite? Anche di fronte ad un conflitto nuovissimo è utile cercare ricorrenze che ci illuminino. Non occorre andare molto a ritroso nel tempo: il problema di inviare o non inviare armi si pose durante la guerra di Bosnia, quando agli europei divenne difficile nascondersi la ferocia che le milizie serbe, e in seguito anche le croate, abbattevano sulla popolazione bosniaca.

L’Onu aveva decretato un embargo sulle armi che di fatto colpiva solo gli aggrediti (gli aggressori non avevano difficoltà a ricevere carichi via mare, la Serbia dalla Russia, mentre ai musulmani non era data questa possibilità). Togliere l’embargo, visti i risultati? Lo chiedevano, unici in Europa, due partiti, i Verdi tedeschi di Joschka Fischer e i lib-dem britannici di Paddy Ashdown.

Il caso della Bosnia

Foto AP/Vadim Ghirda

Tutti gli altri, di sinistra o di destra, erano contrari. Ed era sommamente contrario l’intera area del pacifismo. Quando il Congresso approvò una risoluzione favorevole ad abolire o correggere l’embargo, Clinton la bloccò.

Uno storico che a quel tempo registrava le confidenze del presidente americano spiega il veto della Casa Bianca con il “no” degli alleati europei, soprattutto Francia e Gran Bretagna.

«Giustificavano la loro opposizione con istanze umanitarie, argomentando che più armi avrebbero alimentato il bagno di sangue; ma in privato, disse il presidente Clinton, gli alleati-chiave obiettavano che una Bosnia indipendente sarebbe stata un presenza “innaturale”, in quanto unica nazione musulmana in Europa (…). In particolare Mitterand era stato schietto nel dire che la Bosnia non apparteneva all’Europa, e anche alti dignitari britannici parlavano di una dolorosa ma realistica restaurazione dell’Europa cristiana». Anche il governo italiano pareva su questa linea, a giudicare da quel che scriveva il giornale del ministro degli Esteri Suni Agnelli.

In altre parole si decise di scommettere che le stragi prodotte dalle artiglierie nemiche prima o poi avrebbero costretto la Bosnia ad arrendersi, cioè ad essere fagocitata da Serbia e Croazia.

Ma non si arrese, neppure dopo il massacro di Srebrenica, 8mila musulmani anche giovanissimi sterminati affinché altre enclave sotto assedio alzassero bandiera bianca. Almeno l’80 per cento delle vittime di quella guerra appartenevano alla parte aggredita; almeno un terzo erano donne e bambini.

Il messaggio di sottofondo

Foto AP/Vadim Ghirda

Il contesto ucraino è completamente diverso ma non è diverso l’atteggiamento di chi vorrebbe negare armi agli aggrediti nel nome di una preoccupazione umanitaria associata a un calcolo gelido: quanto più duramente la resistenza sarà colpita tanto più rapida sarà la resa: e a quel punto noi non dovremo più temere le atomiche di Putin.

Così il messaggio che gli ucraini ricevono da settori della sinistra e della destra europea suona così: ormai avete perso, accettatelo, ponete fine a sofferenze che ci angosciano tanto (e ad uno scontro che ci terrorizza, perché anche noi potremmo trovarci coinvolti).

La nostra angoscia è umana, la nostra paura ragionevole: ma non possiamo essere noi, dalle nostre scrivanie, dai nostri salotti televisivi, a decidere cosa faranno gli ucraini. E tutto indica che, come già i bosniaci in condizioni più atroci, gli ucraini abbiano deciso di combattere, costi quel che costi.

Privarli di missili anti-aereo e anti-carro non li indurrà alla resa, semmai li esporrà a rischi maggiori, innalzando il numero di coloro che saranno massacrati.

Inoltre è scontato che anche se negassimo aiuti militari, la diaspora ucraina farebbe il possibile per far arrivare carichi d’armi ai compatrioti, inevitabilmente attraverso paesi Nato: gli europei se la sentono di sparare sugli spalloni della libera Ucraina ai posti di frontiera? Di arrestare patrioti, processarli, condannarli per traffico d’armi? Di pugnalarli nella schiena? Nel caso chiudessero un occhio, Mosca li riterrebbe complici.

Una fiducia ingenua

Foto AP/Emilio Morenatti

Infine: finché è il partner fondamentale della resistenza ucraina, l’Alleanza atlantica avrà leve per influire su Volodymyr Zelensky, se fosse il caso per consigliarli prudenza, perfino per evitare che nella brigata internazionale si catapultino, oltre a ottime persone, anche fascisti d’ogni tipo.

Non avendo la possibilità di selezionare i combattenti stranieri, la Bosnia si ritrovò in casa predicatori salafiti, guerrieri libanesi, assassini di al-Qaeda, anche se in numero modestissimo (e tutti trattati da indesiderati a guerra finita).

E le Nazioni Unite? Il pacifista Francois Mitterrand, che considerava la Bosnia musulmana una macchia oscena sulla veste candida dell’Europa cristiana, riuscì a piazzare i caschi blu francesi a Sarajevo per un lungo periodo. E il contingente fece il possibile per confondere le cose, per esempio per evitare che i serbi fossero chiamati a rispondere di massacri in cui la loro responsabilità era evidente.

La fiducia del grande pubblico nell’Onu è ingenua e come ogni certezza ideologica priva di convalida empirica, può accecare. Attendersi adesso il miracolo dal palazzo di Vetro non ha molto senso, in ogni caso non è quella probabilmente la sede per colloqui europei-Usa-Cina, il percorso obbligato per convincere Pechino a entrare con forza nella partita, sia pure per un tornaconto che in questo caso gli occidentali dovrebbero rapidamente concordare.    

Ma si può convincere Putin il matto? Forse tanto matto non è. Forse l’invasione dell’Ucraina segue un copione pazzesco già portato in scena dall’esercito russo.

L’esordio nel 1994, quando Boris Eltsin lanciò la prima spedizione punitiva contro una minuscola repubblica della Federazione Russa, la Cecenia, colpevole di covare progetti secessionisti. All’epoca il presidente era accusato dai suoi nemici di circondarsi di consiglieri americani e la Nato non aveva ancora inglobato alcun paese dell’ex blocco sovietico. A motivare Mosca non era la sensazione dell’accerchiamento, ma una più convenzionale sindrome imperiale.

Vittoria disastrosa

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La guerra che doveva durare tre giorni durò tre anni e fu inconcludente. Rimasti padroni del territorio i ribelli cominciarono a ricevere l’apporto di feroci jihadi accorsi da mezzo mondo. Tra il 1990 e il 2007 Putin, succeduto ad Eltsin, riprese le ostilità con metodi estremi.

Per evitare perdite i militari russi non entrarono nei centri abitati se non dopo averli rasi al suolo. Grozny, capitale della Cecenia, fu dichiarata dall’Onu la città più bombardata della terra. I media russi furono obbligati a tacere queste atrocità.

Cinquemila ceceni sparirono nel nulla, vite svanite; molti di loro morirono sotto tortura. Quindicimila soldati russi persero la vita. Tra i reduci, due su tre, tornati dalla guerra cominciarono ad accusare sintomi di un disagio mentale che i medici battezzarono “sindrome cecena”.

Alla fine Putin vinse, se si può chiamare vittoria quel disastro. Ma il presidente russo non può illudersi. La Cecenia ha un milione e mezzo di abitanti, l’Ucraina 44 milioni. L’Ucraina è grande due volte l’Italia (600mila kmq contro i nostri 300mila), trentacinque volte la Cecenia.

L’odio può armare gli ucraini

A Ukrainian police officer helps people as artillery echoes nearby while fleeing Irpin in the outskirts of Kyiv, Ukraine, Monday, March 7, 2022. Russia announced yet another cease-fire and a handful of humanitarian corridors to allow civilians to flee Ukraine. Previous such measures have fallen apart and Moscow’s armed forces continued to pummel some Ukrainian cities with rockets Monday. (AP Photo/Emilio Morenatti)

Se a Mosca occorsero anni e centinaia di migliaia tra militari e poliziotti per piegare la minuscola repubblichetta ribelle, neppure decenni basteranno per annichilire l’Ucraina. Putin può sperare che l’identico ricatto imposto ai ceceni, arrendetevi o seppelliamo di bombe voi e la vostra città, alla fine funzioni.

Ma neppure la resa di Kiev cambierebbe il corso di una guerra simile a quei conflitti che nel secolo scorso opposero gli eserciti di imperi coloniali a guerriglie e movimenti di liberazione. Dove l’esercito coloniale all’inizio massacra la popolazione “nemica” profittando di un armamento assai migliore.

Ma l’odio che a questo modo si attira motiva quel popolo martoriato a resistere ad oltranza, fin quando i costi economici e umani diventano intollerabili per l’occupante.

Inoltre Putin non solo ha sottovalutato l’identità nazionale degli ucraini, che riteneva russi inconsapevoli, ma anche il razzismo degli europei. Probabilmente immaginava che se avesse fatto in Ucraina quel che aveva fatto in Cecenia, gli occidentali avrebbero reagito nello stesso modo.

Una volta levati i severi moniti («la Russia pagherà tutto questo») e tracimato sdegno, si tornò al business as usual. Ma gli ucraini non pregano nelle moschee, non gridano Allahu akbar, non hanno quel nome sfortunato, musulmani, che un leader della sinistra europea voleva cancellare dalle mappe dell’Europa cristiana: «Siamo come voi», ci ricorda Zelensky. Gli orsetti in braccio ai bambini che s’incamminano verso l’esilio sono i peluche dei figli nostri, i salotti sventrati dai razzi ci sono familiari, l’arruffato Zelensky, somiglia all’inquilino della porta accanto. Mica facile lavarsene le mani.

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