In tema di transizione ambientale c’è un’enorme distanza tra le istanze dei cittadini e le politiche messe in atto dai governi. Sono stati enunciati impegni e traguardi precisi: il raggiungimento del net zero nel 2050; lo stop in Europa alla produzione di auto a benzina e diesel nel 2035; il limite di 1,5 gradi all’aumento delle temperature.

Ma sono lontani nel tempo e, soprattutto, non è chiaro come saranno raggiunti, con quali politiche e costi. Così rischiano di diventare controproducenti, illudendo l’opinione pubblica, aumentando la spaccatura tra istanze e realtà, e promuovendo la protesta.

È difficile razionalizzare una materia così complessa in pochi punti, ma credo sia necessario un dibatto per fare chiarezza su almeno tre di questi.

Per il cittadino italiano quale è l’obiettivo della transizione ambientale? Ridurre le emissioni nocive o l’aumento delle temperature?

L’evidenza empirica ci dice che i due fenomeni sono direttamente correlati, ma sono obiettivi diversissimi quanto a politiche da perseguire per raggiungerli.

Chi inquina e chi paga

Sameh Shoukry, president of the COP27 climate summit, right, talks with others at a closing plenary session at the U.N. Climate Summit, Sunday, Nov. 20, 2022, in Sharm el-Sheikh, Egypt. (AP Photo/Peter Dejong)

La quantità totale di emissioni continua ad aumentare, ma il contributo europeo alle emissioni è di appena il 7 per cento, per un quarto in capo alla Germania, mentre l’Italia contribuisce per lo 0,8 per cento (https://edgar.jrc.ec.europa.eu).

La Cina conta per il 32 per cento delle emissioni globali; con Russia (e i paesi dell’Est), Iran, India e Pakistan, si arriva quasi al 50 per cento. Gli Stati Uniti pesano per il 13 per cento ma hanno avviato un grande programma di incentivi per l’ambiente.

Se dunque in tutta Europa non circolassero più auto diesel o benzina, l’elettricità fosse rinnovabile e il riscaldamento a idrogeno verde, per il riscaldamento globale non cambierebbe una virgola.

Questo non significa che le istanze ambientaliste siano inutili, ma che gli obiettivi su emissioni e riscaldamento globale non devono essere confusi e necessitano di politiche diverse.

Il riscaldamento deve essere gestito nell’ambito degli accordi internazionali del Cop27, ma l’ultima riunione a Sharm el-Sheikh non lascia ben sperare.

L’unico risultato è un fondo per i danni causati dai disastri climatici nei paesi poveri: un passo significativo, che riguarda le conseguenze, non le cause, del riscaldamento globale.

Inoltre, l’iniziativa del fondo è partita dai paesi occidentali, mentre sarebbe più logico che fossero i grandi inquinatori come la Cina a pagare i danni che causano.

Ma qui ci scontriamo con la realtà della geopolitica. Significativo, in senso negativo, che proprio la Cina nei giorni del Cop27 abbia firmato col Qatar un contratto di fornitura di gas Lng fino al 2047, il più lungo nella storia dell’industria.

Il secondo punto è: chi fa i massicci investimenti necessari alla transizione? e chi ne sopporta i costi? Il primo dato di fatto è che si è investito molto nelle rinnovabili, specie in Europa dove ormai contano per un quarto dell’elettricità prodotta; mentre nel mondo è appena il 13 per cento. 

Ma Cina e Usa hanno imposto un’accelerazione alla transizione nel prossimo futuro. Si sono così create le economie di scala necessarie ad abbattere il costo di produzione di fotovoltaico ed eolico, favorendone l’adozione. Il problema è che ci sono voluti 20 anni per arrivare a questo punto.

Il ruolo delle imprese

Ora bisognerebbe accelerare gli investimenti, ma chi ha le capacità e le ingenti risorse finanziarie per farlo? I governi stabiliscono le regole e gli incentivi ma è il mercato dei capitali che ha le risorse necessarie e può finanziare la transizione alle rinnovabili, perché sono investimenti redditizi. Un ruolo possono averlo i fondi, ma non sono azionisti di lungo periodo e le risorse necessarie troppo ingenti anche per loro. Il candidato naturale è dunque il meno ovvio: le imprese energetiche ed elettriche.

Sapendo che l’uso delle fonti fossili è destinato a crollare, idealmente fino ad azzerarsi, da tempo hanno tagliato gli investimenti nella ricerca ed estrazione, come pure nella generazione elettrica da fossili; e non aumentano gli investimenti anche a fronte dei recenti forti aumenti di prezzo, consapevoli che non sarebbero destinati a durare. 

Ma il costo marginale di produzione dalle vecchie infrastrutture per l’estrazione di energia fossile e il loro uso nella generazione elettrica è ancora molto basso.

A fronte dunque di un’offerta limitata e bassi costi marginali, la crescita economica, che necessiterà di energia fossile ancora per parecchi anni, farà crescere il prezzo dell’energia fossile e, a sua volta, genererà i grandi flussi di cash flow che servono a finanziare la transizione.

La guerra in Ucraina ha solo prodotto una grande volatilità, con picchi elevati che andrebbero gestiti con uno dei tanti piani proposti e rimasti sulla carta; ma non ha cambiato la natura economica della transizione.

I rincari inevitabili 

21 November 2022, Bavaria, Munich: Climate activists of the environmental movement "Last Generation" sit on Prinzregentenstra'e and block traffic. Photo by: Lennart Preiss/picture-alliance/dpa/AP Images

È fisiologico dunque che durante la transizione il prezzo relativo dell’energia fossile aumenti rispetto alle rinnovabili, e che questo sia il meccanismo per generare le enormi risorse finanziarie necessarie alla transizione.

Il problema pertanto è triplice. Il primo è che i cash flow così generati devono essere prevalentemente destinati agli investimenti in rinnovabili, non restituiti agli azionisti come dividendi o buyback.

Il secondo è che la transizione comporta inevitabilmente un caro bollette e compito dello Stato è quello di attenuarlo sostenendo il reddito delle fasce più deboli: la tassa sugli extra profitti va bene, ma solo se usata per questo scopo; non se serve a sussidiare le imprese energivore visto che il caro energia dovrebbe servire proprio a penalizzare queste attività.

Il terzo è che gli investitori fanno pressioni sulle società energetiche ed elettriche affinché vendano attività legate alle fossili per migliorare la loro immagine green.

Per la transizione però non cambia nulla: le attività cedute sono redditizie e ci sarà sempre un compratore che continuerà l’attività di prima, e che anticipa alle società venditrici i cash flow prodotti con l’energia fossile che verranno comunque generati in futuro.

Questo ci porta al terzo punto: i criteri di investimento Esg (dove la E sta per Environment) ormai diventati uno standard ovunque.

L’idea sottostante è che se si indirizzano gli investimenti verso le aziende environmentally friendly da una parte si abbatte il loro costo del capitale, e dall’altra se ne aumenta il valore offrendo così rendimenti più elevati agli investitori.

I prolbemi per gli investimenti verdi

A prescindere dal cosiddetto greenwashing, ovvero operazioni societarie esclusivamente di facciata per migliorare la propria immagine, o da come in pratica questi criteri vengono implementati (spesso facendo riferimento unicamente alla formulazione dei documenti societari), ci sono due problematiche di fondo negli investimenti Esg.

Il primo è che non c’è alcuna relazione a priori con i maggiori rendimenti che vengono prospettati in quanto dipendono dagli andamenti relativi dei settori di borsa.

Coi criteri Esg, per esempio, si tenderà necessariamente a prediligere l’investimento nei titoli tecnologici rispetto a quelli energetici o ai produttori di materiali di base, distorcendo l’effettivo contributo alla performance degli Esg: se infatti l’indice Nasdaq dei tecnologici ha reso 57 per cento più dell’indice della borsa americana negli ultimi sette anni, da allora ha perso il 28 per cento in valore assoluto, rispetto al +61 degli energetici, con pesanti ripercussioni sui rendimenti degli investimenti Esg.

Ma quanti risparmiatori sono realmente disposti a sacrificare i propri risparmi per salvare l’ambiente? Tuttavia è la logica sottostante che forse non è corretta: se l’obiettivo vero è migliorare l’impatto sull’ambiente, non sarebbe più efficace premiare le aziende inquinanti ma che sono state capaci di ridurre significativamente il loro impatto, piuttosto che quelle che ne hanno già poco?

Se si segue questa logica per migliorare realmente l’ambiente bisognerebbe premiare chi riduce le emissioni, non chi esercita attività per loro natura a emissioni basse o nulle. Richiederebbe però un cambio di logica, analisi più approfondite e decisioni più controverse. Quindi, difficili.

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