La democrazia muore per narcisismo. So perfettamente che questa tesi farà storcere il naso ai lettori. Che l’accuseranno di essere moralista e soprattutto soggettiva. Ma di fronte a ciò che sta avvenendo negli Stati Uniti credo che anche le consuete categorie con cui interpretiamo “la crisi della democrazia” siano ormai logore.

Certamente non si può “soggettivare” la crisi della democrazia americana riducendola all’“eccezione Trump”. Se c’è Trump è perché la morte della democrazia è stata preparata da un suo svuotamento oggettivo. Una crisi di legittimazione delle élites, le sinistre che non rappresentano più i margini della società, il capitalismo che ha messo sotto tutela la politica. Tutte cose che sappiamo bene e che pure vanno ribadite, per non dimenticarci che Trump è effetto, non causa. Ma ho come l’impressione che i conti siano stati sbagliati.

È probabile che lo svuotamento della democrazia avesse come obiettivo di lasciarne un guscio vuoto, una parvenza di regole e forme liberali quasi del tutto prive di effettività reale. Forse è questa la differenza tra l’esperimento neoliberista della attuale Ue e l’esperienza americana. Mentre in Europa la democrazia non è in discussione, anche se la sua capacità di prendere decisioni è ormai ridotta ai minimi termini (la questione dei fondi per il riarmo ne è l’ennesimo esempio), negli Stati Uniti questa democrazia infiacchita ha avuto un esito inaspettato ma in fondo coerente: Trump.

Se si svuota la democrazia, non è affatto difficile vederne la fine. E la fine della democrazia arriva per la tracotanza di un capo (non lo dimostra solo Trump, ma anche Netanyahu). C’è dunque un tratto soggettivo che va sottolineato e che si rende evidente negli ultimi eventi. Trump non è semplicemente in preda a un narcisismo fuori controllo – cioè a un’incapacità di distinguere tra sé e il potere che gli è stato assegnato – ma questo narcisismo si può definire paranoico.

La paranoia è una categoria che ha attraversato soprattutto la storia politica del Novecento. Come ricordano Forti e Revelli in un bel libro di qualche anno fa (Paranoia e Politica, 2007), essa era un tratto distintivo dei totalitarismi e serviva a costruire un “soggetto collettivo” fondato sullo sterminio delle differenze. Oggi mi pare che la fine della democrazia non giunga per la costruzione di un soggetto collettivo, ma per la sua dissoluzione a tutto vantaggio di un soggetto personale - di un capo.

Una delle grandi differenze tra Hitler e Trump sta nel fatto che mentre il primo costruiva intorno a sé un consenso identitario, Trump approfitta della disgregazione sociale e del disincanto democratico per governare il mondo secondo i propri umori e soprattutto i propri rancori. Hitler aveva l’appoggio dei tedeschi, la maggior parte degli americani è invece del tutto rassegnata e si disinteressa di ciò che accade. Si astiene, come abbiamo imparato a fare anche noi italiani. O ha paura che difendere gli interessi di tutti possa penalizzare i propri. La morte della democrazia non si annuncia più con le grandi parate novecentesche ma con il disinteresse – tipico del nuovo millennio – per ciò che succede intorno a noi.

Trump approfitta di questa dissoluzione del legame sociale per criminalizzare tutto ciò che è altro da sé. In questo senso la politica di Trump non è semplicemente razzista, ma è xenofobica. La violenza di Trump si rivolge indistintamente ai migranti, ai poveri, agli oppositori politici, ai palestinesi, ai non binary. Il nemico non è più solo lo straniero, ma lo straniero è tale in quanto è nemico: chiunque egli sia, è nemico in quanto è altro da ciò che Trump pretende. Il mondo dovrebbe essere abitato solo da lui e da persone come lui. Con una forma di furore paranoico, o il mondo diventa un immenso specchio del suo ego oppure è legittimo che esso venga messo in catene.

In questa ossessione persecutoria nei confronti di ogni altro da sé, si spiega anche il disprezzo di Trump per ogni regola di diritto. Il diritto è per definizione una delle forme del “grande Altro”, perché è un limite esterno che non permette la coincidenza tra l’ego e il potere. Fin quando c’è il diritto, non potrò fare del mondo il mio immenso specchio. La vulnerabilità del diritto sta precisamente nel fatto che un capo non potrà che odiarlo, percependolo come il principale nemico della propria forza.

Se ciò che ho scritto è vero, è semplice capire cosa fare per arginare la deriva, se si è ancora in tempo. Trasformare contemporaneamente le circostanze oggettive e soggettive della crisi. Contrastare la crisi di senso della democrazia facendola sentire un’opportunità e non qualcosa da cui difendersi; educare classi dirigenti che non siano né narcisistiche né paranoiche: che accettino che il potere si deve esercitare nei limiti del diritto e che il dissenso non è un’inimicizia, ma una forma essenziale della vita sociale.

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