Il professor Giuseppe Bersani basa il suo intervento nell’edizione di lunedì scorso, in polemica con Gherardo Colombo, su alcune “certezze” sulla cannabis.

Il nesso causale fra l’uso di cannabis e i fenomeni psicotici non è stato in realtà dimostrato, mentre il dibattito in letteratura rimane aperto se l’uso non sia una modalità di automedicazione della malattia, invece di una conseguenza.

Anche sui danni al cervello, il quoziente intellettivo, la memoria e la sindrome amotivazionale la comunità scientifica è molto meno monolitica di quel che si vorrebbe far pensare.

La cannabis risulta undicesima – ben al di sotto di alcol e tabacco - nella classifica di pericolosità della rivista The Lancet (Nutt, 2007). Il punto però non è se e quanto questa faccia male, bensì se la sua proibizione permetta di evitare quei danni potenziali e quei pericoli che l’assunzione di una qualsiasi sostanza psicoattiva, caffè compreso, possono generare.

Bersani omette di segnalare come tutto ciò che si presenta sotto i suoi e i nostri occhi, avvenga in uno dei regimi di proibizione più rigida in Europa. Eppure, si tratta del mercato clandestino più libero in assoluto.

Il proibizionismo non riesce a eliminare, o limitare, la produzione, la distribuzione e l’uso di droghe. Limitandoci alla cannabis, la cui coltivazione illegale per le convenzioni doveva essere eliminata entro il 1989, possiamo osservare come oggi sia la sostanza illegale più usata al mondo.

 L’Oms, nel toglierla dalla Tabella IV delle sostanze più pericolose, ne ha giustificato la permanenza in Tabella I solo perché la più diffusa, ammettendo come non sia associata allo stesso livello di rischio per la salute delle altre droghe.

Parliamo di una pianta che, nonostante la repressione, è oggi usata in Italia da oltre 6.000.000 di persone, da quasi un quarto della popolazione studentesca e che è stata usata nella vita da almeno un terzo degli italiani. La stragrande maggioranza di questi ne controlla l'uso senza rischi e danni. Nel 2021 ha prodotto 300 ospedalizzazioni, ovvero lo 0,005 per cento della platea di consumatori.

A fronte di questo, l’incredibile attività di contrasto penale, nonostante non riesca a contenere l’offerta e a scoraggiare la domanda, è invece molto efficiente nel riempire le carceri e colpire i consumatori. Un terzo dei detenuti è in carcere per droghe, mentre dal 1990 ad oggi oltre un milione di italiani è stato segnalato ai prefetti per uso di cannabis, come ricorda il Libro Bianco sulle droghe.

Arriviamo così al dogma alla base del ragionamento di Bersani. Ovvero che la regolamentazione legale provochi un aumento dei consumi. Se andiamo a vedere i dati provenienti da Uruguay, Canada e Stati Uniti, scopriamo una realtà differente. Se all’inizio vi è stato un aumento, che sconta però sia l’effetto novità che la maggiore propensione a rivelare un uso divenuto legale, nei successivi anni i consumi si assestano e tornano verso i livelli precedenti.  

Per quella fascia di età che più sta a cuore a noi e a Bersani, gli adolescenti, i consumi invece diminuiscono negli Usa, in Canada ed in Uruguay.

Aumenta la percezione del rischio in Uruguay e calano i comportamenti a rischio in Canada. Perché regolamentare è il contrario di banalizzare.

Sfatati i miti, la legalizzazione è un duro colpo le narcomafie: anche se è solo il 40% del fatturato, la cannabis è il loro più grande portafoglio clienti. Ed è fondamentale, essendo lo spacciatore l’unico reale legame fra le diverse sostanze.

 Per dividere i mercati in Olanda negli anni Settanta hanno avviato la politica della tolleranza, non tornando più indietro e mantenendo prevalenze d’uso fra i giovani più basse rispetto ai paesi proibizionisti.

La legalizzazione responsabilizza l’individuo, concedendogli quella libera scelta consapevole di cui scriveva Gherardo Colombo. Permette di passare dal controllo penale a quello sociale di una sostanza ormai normalizzata nella società.

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