Il governo che uscirà dalle urne stasera non potrà prescindere dal contesto europeo; molte delle scelte che avranno un impatto significativo sulla vita degli italiani non saranno fatte a Roma ma a Bruxelles e a Strasburgo, dove il nuovo governo dovrà in fretta imparare a tessere alleanze e a lavorare su inevitabili compromessi.

La gestione dell’emergenza 

Quali saranno le sfide europee? In primo luogo, ovviamente, la situazione degradata dell’economia e un contesto geopolitico instabile: l’aumento dei costi dell’energia inizia a mordere sul potere d’acquisto di imprese e famiglie, mentre i colli di bottiglia negli approvvigionamenti, sia pure in via di risoluzione, continuano a provocare ritardi nei progetti di investimento, pubblico e privato.

Per far fronte alla scarsità i governi europei stanno tornando a fonti di energia inquinanti, e si pone in maniera ormai evidente il tema del conciliare la risposta alla crisi con il sentiero verso la transizione ecologica.

Infine, le banche centrali dai due lati dell’oceano hanno chiaramente segnalato di essere pronte a spingere l’economia in recessione pur di mostrare ai mercati che sono serie nella lotta all’inflazione.

Il calo del Pil e l’aumento dei tassi di interesse porteranno inevitabilmente a delle tensioni sul mercato del debito sovrano, riducendo ancora lo spazio di manovra di molti governi. Su queste sfide nelle scorse settimane sono stati versati fiumi d’inchiostro.

Il dibattito nostrano sullo scostamento di bilancio è completamente surreale; in nessun altro paese europeo si pensa (dovremmo dire si fa finta di pensare?) che nei prossimi mesi non sarà necessario proseguire nel sostegno massiccio all’economia.

Molte delle risposte alla crisi saranno comuni. Che si parli di tetto al prezzo del gas o di centrale unica degli acquisti, la dimensione per far fronte al caro energia sarà necessariamente europea. Analogamente, un’eventuale rimodulazione del Pnrr (non una rinegoziazione, proibita dal piano Next Generation Eu sottoscritto da tutti i governi con il beneplacito del parlamento europeo) per tenere conto dell’aumento dei costi non potrà che riguardare tutti i paesi, non solo il nostro.

Il treno delle riforme 

Per quanto onnipresenti, questi temi non sono in prospettiva i più importanti. La Commissione europea è impegnata da anni in una riflessione ad ampio raggio sulla riorganizzazione della governance europea.

Le istituzioni europee (dal Patto di Stabilità al mandato della Bce) e le politiche da queste ispirate durante la crisi del debito sovrano, si sono dimostrate totalmente inadatte per tenere insieme l’eurozona; tanto inadatte che, quando nel marzo 2020 l’Europa è stata colpita dalla pandemia, è stato necessario metterle in un cassetto.

La Commissione ha dovuto sospendere il Patto di stabilità perché i paesi membri potessero far fronte all’emergenza e la Bce ha dovuto lanciarsi in un massiccio programma di acquisti di titoli per evitare l’esplosione del mercato dei debiti sovrani.

Ci sono almeno tre grandi temi di discussione, tra loro legati. Intanto, quello della riforma del Patto di stabilità, la regola che vincola le politiche di bilancio degli Stati membri.

Il Patto nella sua forma attuale, lo dice anche la Commissione, è inefficace per garantire la disciplina, destabilizza le economie europee favorendo la speculazione, e disincentiva investimenti necessari come quelli sulla transizione ecologica.

La Commissione dovrebbe nelle prossime settimane presentare una sua proposta di riforma, e negli scorsi mesi si era consolidata un’alleanza tra Draghi e Macron perché questa proposta fosse ambiziosa (i due presidenti avevano  menzionato una “regola d’oro” che consentisse di scomputare l’investimento pubblico dai limiti di disavanzo). La Germania sembra invece ripiegarsi su se stessa e voler tornare all’ancien régime.

Il secondo tema è quello della creazione di una capacità di bilancio europea: un ministro dell’economia comune, insomma che possa finanziare beni pubblici europei, contrastare le recessioni globali, contribuire a definire una politica industriale comune.

Potrebbe prendere diverse forme: da un fondo di stabilizzazione cui attingere nei momenti di rallentamento economico ad un Next Generation Eu permanente che finanzi beni pubblici globali. Una capacità di bilancio comune non sarebbe necessaria solo per una più efficace gestione dell’economia europea.

Marco Buti e Marcello Messori notano come essa sarebbe pure uno strumento indispensabile nel perseguire quella ”autonomia strategica” che, in un contesto geopolitico che rimarrà a lungo instabile, è condizione necessaria per una crescita sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale.

Contrariamente alla riforma del Patto, che finirà rapidamente sulla scrivania del prossimo governo, la discussione sulla capacità di bilancio comune è appena iniziata; anche in questo caso l’opposizione viene dai paesi del Nord, preoccupati dalla presunta indisciplina dei cosiddetti “dissoluti”.

Come per la riforma del Patto, la sola speranza di mettere nell’angolo i falchi tedeschi e i partigiani dello status quo è che, qualunque sia il suo colore, il nuovo governo italiano rinsaldi l’asse con la Francia.

Infine, ma non da ultimo, ci sarà da gestire l’enorme stock di debito europeo, che al momento continua ad aumentare.

I molti che auspicano un ritorno al vecchio Patto di stabilità spingono anche perché il Mes sia potenziato per poter meglio imporre programmi di austerità ai paesi in difficoltà.

A questi si oppone chi invece ritiene che la disciplina di mercato sia insufficiente quando non dannosa, e spinge per soluzioni più creative come, ad esempio, un’Agenzia Europea del Debito, che eriga uno scudo tra i mercati e i governi, lasciando questi ultimi completamente responsabili delle proprie azioni.

Guerra o non guerra il dibattito sul futuro assetto da dare all’Unione continua e, qualunque sia il governo che uscirà dalle urne stasera, sarebbe gravissimo che l’Italia non vi partecipasse da protagonista.

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