Vi sono due criteri calcolare i risultati di una elezione. Il primo è quello, incontrovertibile, dei numeri che si rapportano sempre alle elezioni precedenti.

Rispetto al 2018 solo due partiti sono avanzati: Fratelli d’Italia in maniera strepitosa, e il Pd di una inezia (+0.2 per cento) Tutti gli altri – Lega, M5s e Forza Italia – hanno subito sconfitte catastrofiche, dimezzando o quasi le percentuali precedenti.

Il secondo è quello delle aspettative . Nessuno tra gli sconfitti pensava di aumentare i propri voti. Eppure tutti hanno avuto motivi di soddisfazione: il M5s perché era dato per scomparso e invece è il partito dominante del sud.

FI e Lega perché entrano comunque al governo e, al netto dei malumori interni, Salvini porta in parlamento una nutrita rappresentanza, più che doppia rispetto alla percentuale di voti ottenuta.

Il Pd invece mastica amaro. Non perché non abbia vinto arrivando al governo: nessuno sano di mente lo  poteva pensare. E nemmeno perché non sia diventato il primo partito, ipotesi accarezzata all’inizio della campagna elettorale ma poi sfumata del tutto.

Il Pd è considerato uno sconfitto perché non è cresciuto significativamente rispetto al 2018. L’aspettativa creata dai sondaggi e condivisa dalla classe dirigente del partito era ben diversa. Di qui la profonda delusione. Che si è trasformata in una crisi di nervi.

Vi ha contribuito per primo lo stesso segretario Enrico Letta che, con una lugubre conferenza stampa, ha dichiarato conclusa la sua esperienza alla guida del partito fino al prossimo congresso.

Questo passaggio di consegne riflette la caratura morale del segretario ma è stato precipitoso e sbagliato, nei modi e nei toni.  Infatti la sua dichiarazione ha dato la stura ad una valanga di critiche, tutte portate al diapason da una pletora di commenti tranchant con richieste di azzeramento, rifondazione, ripulisti interni, auto da fé. E questo per non essere aumentato di qualche punto percentuale.

L’interrogativo comunque rimane: il Pd è da buttare? Certo, se va in confusione per questo (relativo) smacco, allora può anche chiudere bottega perché per i prossimi anni serve una organizzazione consapevole di sé, sicura dei propri valori, e grintosa nel confronti del governo.

Serve un partito orgoglioso della propria storia e convinto della propria visione democratica e progressista. Ritornare sull’“amalgama mal riuscito” alla fondazione del Pd  quindici anni dopo non ha senso.

A meno di riconoscere che è stato un tutto un errore, una pia illusione, dall’Ulivo in poi. I giudizi apocalittici e le pulsioni palingenetiche spesso rimangono sterili.

Meglio adottare il cacciavite lettiano e cercare di riparare questo partito attraverso una lunga e approfondita discussione tra gli iscritti e i simpatizzanti.

Discutere e litigare è l’unico modo per verificare l’esistenza di un progetto comune. Altrimenti , liberi tutti e ci vedremo con un partito di sinistra nell’anno 3000.

© Riproduzione riservata